Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…
Giorno 49
“Quando finisce la partita, quando terminano i novanta minuti di gioco regolamentari, quando lo spettacolo calcistico è passato, è storia, è morto, allora comincia il periodo della dissezione, l’autopsia, l’analisi attenta degli altri accadimenti recenti…”. Lo ha scritto Jorge Valdano, uno dei pochi calciatori pensanti di un’epoca vicina alla nostra, e non perché chi gioca a calcio ad alto livello non sappia argomentare concetti un po’ più alti del 4-3-3 ma perché generalmente non gli è richiesto, e probabilmente per questo si è disabituato a farlo.
Il problema è che il blocco dei cervelli causato dalla pandemia non ha riguardato sinora i calciatori, molto più maturi, accorti e spaventati dall’ipotesi di tornare in campo di coloro che il calcio lo governano. Loro invece non hanno mai mollato. E sperano ancora che il pallone ricominci a rotolare in tempo per chiudere la stagione. Non si arrendono al fatto che è un gioco di squadre strette e di contatto obbligatorio, l’unico dove gli attori sputano per terra in continuazione (questa non l’ho mai capita, ma al virus piace molto) come se fosse inevitabile. Né alla considerazione che praticarlo senza pubblico è quasi inutile e annullante. Continuano a restare fuori dal mondo, anzi sopra, e a credere che senza di loro non si possa vivere. Anche tramite loro invece si è iniziato a morire.
Atalanta-Valencia il 19 febbraio a San Siro, due giorni prima del paziente-1 di Codogno, è stata una bomba biologica, la partita-zero, una delle micce accese tra Milano, Bergamo e la Spagna, con 45mila tifosi stipati in uno stadio e propagatori inconsapevoli del virus. Nessuno poteva sapere allora, ma anche dopo si è continuato a giocare. E nessuno ha chiesto scusa per quella scelta avventata: tutti gli altri sport, Olimpiadi comprese, si sono fermati per scelta, il pallone lo ha fatto per forza. E continua a recitare la parte dell’irriducibile, forte di un ruolo gonfiato anche se vero. Mantiene con i suoi soldi (o meglio, con i soldi di chi lo segue) tutto lo sport italiano, e per questo gode di privilegi enormi. Primo fra tutti: ha un ministero sopra di sé, l’unico però che non decide per lui, vigile ma sottomesso. E aspetta che siano i padroni della palla a dire: basta, la stagione non riprenderà.
Questione di ore, sarà fortunatamente inevitabile. Ma il calcio continuerà a essere la cosa più importante delle cose meno importanti: credo che se non si fosse fermato il campionato, molti italiani non si sarebbero nemmeno accorti che c’era la pandemia. Come penso pure che non si tornerà veramente alla normalità fino a quando non riapriranno gli stadi, perchè il pallone è l’unica religione che bestemmia in campo e non ha atei.
Ma un conto è pensarlo, e un altro accettarlo come dogma: dover considerare come prioritari i conti disastrati del calcio mentre intorno a noi c’è uno scenario di economia di guerra è abbastanza fuorviante. Lo dico da appassionato storico e da scrivano di settore di lunga data: è senza ombra di dubbio il gioco più bello del mondo. Ma se davvero, come si sente ripetere spesso, serve il pallone per distrarci a qualunque costo, saremmo un popolo di idioti. Vorrei, se posso, continuare a non distrarmi. E soprattutto non sentirmi un idiota.