Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…
Giorno 3
L’Italia unita sul balcone è lo specchio di un popolo straordinario, sarebbe bello che prima o poi diventasse un popolo normale. Ovviamente non si deve uscire, però un po’ sì. E’ assolutamente sconsigliato, non è vietato se fai questo, può diventarlo se fai quello, altro non si sa. O forse magari. Il decalogo del buon senso non ha mai un senso solo, si va a sentimento, lento.
Mi chiudo in casa e sento le sbarre, esco per strada e mi si sento un evaso. Per un attimo ho l’impressione che abbiano messo una taglia sulle orme che cerco di non lasciare. Piove, virus ladro. Chi mi incrocia ha lo stesso passo svelto, guarda per terra, cambia marciapiede. Stiamo diventando professionisti dello slalom, curviamo come le mosche. Non si cammina, si zigzaga. Non c’è più un luogo, lo spazio è così ampio che ti stringe. E il tempo è fermo proprio quando vorremmo che passasse in frettissima.
C’è solo un’ora nell’orologio della testa, le 18. Quando arriva il bollettino dei caduti. Prima spaventava, ora ci si abitua. E l’abitudine è più brutta dei numeri brutti. Invece non voglio rassegnarmi a sospirare e basta, non voglio più chiedermi quando finirà, preferisco apparecchiarmi al meglio. Non mi vede nessuno, familiari a parte, ma mi vedo io. Per questo anche in casa oggi ho messo la cravatta, e una giacca bella, le scarpe lucide: bisogna essere in ordine per reagire. Occorrerebbe vietare le pantofole, per decreto. Quando finirà sarò rasato e pettinato. L’eleganza è uno stato d’animo, ma non puoi provarlo con indosso tuta e calzettoni. Nemmeno in questa prigione per privilegiati che è diventata casa nostra.