Il dialetto si imparava ascoltando e parlando, in una comunità d'affetti e di interessi che si fortificava verso l'esterno facendo frontiera e si distingueva all'interno con vezzi, usanze, inflessioni che sezionavano un paese in borgate, le borgate in casamenti. In questo affine alle usanze del cucinare, che variano per infinite sfumature. Le mie due nonne si stimavano, si apprezzavano ma c'erano trecento passi a dividere le due case e attraversavano il confine tra la piazza ed il ponte. Un paese che non ha confini interni è un paese conquistato ed occupato. Leggere sfumature d'accento, di desinenza, di gusto: da mia nonna Antonia il purè si mangiava dolce, a casa nostra salato e così il sanguinaccio di maiale. Le variazioni del linguaggio e del gusto impercettibili ad un estraneo garantivano la ricchezza e la vitalità di una comunità.Preservare/dimenticare il dialetto è una questione che infiamma, sempre meno e sempre più raro, discussioni estive al bar e dibattiti culturali. Una danza degli spettri, tra nostalgia e buona volontà, non resusciterà i morti.Resta qualche suono aspro, mozzo o sibilante; memoria di azioni non più praticate, pensieri smarriti, sotto un cielo ormai monòtono ed era tumultuoso di misteri.
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