Caro Avvenire, non condivido nemmeno una sillaba di ciò che ha detto la professoressa Donatella Di Cesare su Barbara Balzerani. Il suo è stato un accesso di narcisismo generazionale. Ha detto una sciocchezza, ma l’ha fatto da libera e privata cittadina, peraltro per pentirsene poco dopo. La Rettrice della “Sapienza” ha ipotizzato sanzioni disciplinari. Penso non sia corretto censurare le opinioni – seppur discutibili – di un membro del corpo accademico, se non negando la libertà di insegnamento.
Luca Riccardi
Caro professor Riccardi, lei insegna Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Cassino e del Lazio meridionale, quindi parla da conoscitore del mondo accademico. A suo parere, Donatella Di Cesare – nello scrivere su X «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna», post da lei stessa presto rimosso – si esprimeva da libera privata cittadina e non da docente della Sapienza.
Su questo mi permetto di dissentire: uno studioso di materie umanistiche, quando esprime giudizi storico-politici, non è mai “fuori servizio” e in aula porta tutta la sua vicenda intellettuale, ovvero ciò che lo distingue e giustifica la sua presenza come insegnante. D’altra parte, concordo con lei sull’eccesso di acrimonia che ha accompagnato la polemica intorno alle 22-parole-22 della filosofa.
Di Cesare è da tempo un personaggio pubblico, grazie alla sua partecipazione ai talk show televisivi, e si è attirata forti simpatie e forti antipatie per l’aperta ostilità al sostegno militare occidentale verso l’Ucraina. Pertanto, si può certo valutare profondamente inopportuno l’aver commemorato – su un social, qui sta il punto – la scomparsa di una ex terrorista mai pentita dando l’impressione di condividerne le idee – quelle idee che poi hanno innescato azioni di morte – senza insieme ricordare le vittime e i guasti che ha provocato Barbara Balzerani in quanto protagonista del progetto di eversione delle Brigate Rosse. Non avevano motivo di offendersi i parenti degli uccisi? Non si tratta di una valutazione miope, se non venata di complicità morale?
Stiamo al messaggio (ambiguo) diffuso sull’ex Twitter. E alle giustificazioni successive dell’autrice. Come hanno argomentato autorevoli colleghi, Di Cesare ha pubblicato migliaia di pagine (discutibili, come l’elaborazione di chiunque, ma non carta straccia) né ha mai attuato condotte violente: tutto ciò non può essere cancellato da uno “scivolone”, pur grave e imbarazzante.
Le sanzioni disciplinari – qualcuno ha chiesto addirittura la rimozione dalla cattedra – attualmente considerate dagli organi competenti non necessariamente devono condurre a una censura delle opinioni. Se ci si limitasse a un richiamo perché le frasi erano incaute e si prestavano a interpretazioni inaccettabili di sostegno al terrorismo, si potrebbe avere una soluzione salomonica che segnali, in modo proporzionato, la leggerezza compiuta da Di Cesare e plachi il giustizialismo rampante.
Resta il tema fondamentale della libertà di espressione: deve essere assoluta? Oppure, vi sono casi in cui anche nelle università c’è un limite (la promozione di intolleranza e violenza, per esempio) da non varcare? Un docente della Statale di Milano, nel 2021, è stato sospeso un mese per avere condiviso su Facebook un meme “sessista e altamente offensivo” nei confronti della vicepresidente Usa Kamala Harris. Il provvedimento è stato confermato anche dal Tar e recentemente Luigi Marco Bassani ha cambiato ateneo, lamentando una persecuzione per la quale non avrebbe trovato solidarietà.
Tutti casi delicati, i quali rimandano alle vicende americane che hanno coinvolto le presidenti di Harvard e del Mit per le situazioni (ben più gravi) di antisemitismo attivo dove, all’opposto, l’accusa ai vertici istituzionali era di eccessiva tolleranza. Tempi difficili, nei quali è chiesto un supplemento di attenzione e di riflessione su un caposaldo della nostra società liberale.
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