Sono sempre stato dalla parte del generale Kutuzov contro Napoleone, anche se non nego il fascino dell'Imperatore francese. Dopo Lev Tòlstoj, furono le icone della Galleria Tret'jakov di Mosca a farmelo capire: Trinità degli Angeli, Madonne della Tenerezza, San Giorgi in lotta contro i draghi. Mi colpì la densità dei colori: il rosso, un'ultima fermata di sangue rappreso; il verde d'erba intravista fra le giunture del legno; il giallo che saluta l'oro; il nero a strisce quasi fosse il completo di un giocoliere; l'azzurro celeste delle Vergini. Restai incantato di fronte ai gruppi di arcieri in sella ai cavalli di Novgorod, una sfilata di elmi, corazze e visi accesi. Era tutto simbolico: nasi, occhi, mani giunte nella preghiera, espressioni femminili. Un griglia semantica entro cui l'artista, come un pesce nell'acquario, compiva le sue evoluzioni. L'uomo moderno, nel fraintendimento della libertà, si è scagliato contro questo sistema spirituale preordinato fino a godere della propria solitudine, ma la Russia, ancora oggi, ti fa sentire che tale degustazione di una presunta autonomia non può che trasformarsi, a lungo andare, in uno stridulo falsetto. Senza il supporto strutturale della tradizione, l'umanesimo nel Terzo Millennio rischia di diventare un urlo rauco e disperato.
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