C’è una patologia istituzionale nei rapporti tra Governo e Parlamento che tocca un punto nodale del sistema democratico – il procedimento con cui si fanno le leggi – e a cui purtroppo ci si sta lentamente assuefacendo. E’ la proliferazione dei decreti-legge a cui si aggiunge un sistematico ricorso al voto di fiducia per “blindare” l’iter di conversione e rispettare i sessanta giorni previsti dalla Costituzione. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi a proposito del decreto sui migranti (con tutte le contorsioni giuridiche del caso specifico) e già si annuncia a breve un’analoga procedura per il decreto sul Ponte sullo Stretto di Messina e sul decreto bollette. I cultori delle statistiche rilevano che in sei mesi il governo in carica ha emanato 23 decreti legge con una media mensile da record, mentre in valori assoluti sono ancora nettamente avanti Berlusconi (80), Draghi (64) e Renzi (56). Ovviamente queste classifiche lasciano il tempo che trovano anche perché in un confronto rigoroso bisognerebbe valutare la durata degli incarichi, il quadro politico interno, il contesto economico e quello internazionale, ecc. Questi numeri servono soltanto a rilevare come il governo Meloni si sia messo di slancio nella scia degli esecutivi che lo hanno preceduto. Nel gioco polemico gli avversari politici possono anche rimproverare alla premier di aver contestato questo andamento quando era all’opposizione, ma che si tratti soprattutto di una disfunzione “di sistema”, non imputabile in via principale a un singolo leader o schieramento, nessuno può onestamente metterlo in discussione. Rispetto alla passata legislatura, peraltro, sono intervenuti due fatti nuovi: il ritorno di un governo tutto politico; la prima applicazione della riforma costituzionale che ha tagliato il numero dei parlamentari. Camere decisamente più snelle e un esecutivo dotato di una maggioranza potenzialmente coesa sono due condizioni che in teoria avrebbero dovuto agevolare il procedimento legislativo. La situazione invece non è cambiata.
Quando l’8 maggio 1948 – 75 anni fa (auguri) – Camera e Senato si sono riuniti per la prima volta dopo l’entrata in vigore della Costituzione, i decreti-legge erano “provvedimenti provvisori” che il Governo poteva adottare “in casi straordinari di necessità e urgenza” (art.77). Dovrebbero esserlo anche oggi, ma di fatto sono diventati la modalità prevalente di produzione legislativa. La stragrande maggioranza delle leggi nate su iniziativa dei governi, infatti, è il risultato della conversione di decreti e proprio la conversione dei decreti finisce per monopolizzare l’attività delle Camere, fino al punto di rendere sempre più spesso problematica la seconda lettura da parte dell’altro ramo del Parlamento a causa dei tempi di scadenza dei provvedimenti.
Se ci fosse una volontà politica convergente, a livello di regolamenti parlamentari si potrebbe fare molto più di quanto pure si è fatto per cercare di correggere o almeno arginare questa deriva. Ma sono chiamati in causa anche aspetti che richiederebbero una riflessione sul piano costituzionale, a cominciare da quel “bicameralismo paritario” che, come si diceva poc’anzi, viene già ora contraddetto nella prassi con sempre maggiore frequenza.
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