Perdonare è un verbo d'acciaio su cui fondare oppure sprofondare. I giornalisti televisivi, naturalmente, sono riusciti a screditarlo non poco. Porgono infatti la domanda all'orfana cui è stato assassinato il padre: «Ma lei perdona l'assassino?». L'esperienza evangelica, ritrova nella sua preghiera cardine, il momento aureo «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Se penso alla storia della decolonizzazione, l'esempio più luminoso è quello di Mandela che, dopo decenni di galera, sa diventare uomo di perdono. Arriviamo a stringere il cerchio sulla nostra Europa o Italia. Circa la caduta del fascismo, si parla e si ridice di pacificazione, continuamente. Poi però c'è sempre una coda della coda, che non cicatrizza del tutto la fessura del rancore. Il problema, credo, sia quello ormai che la storia sappia perdonare quella pregressa. Si tende ad essere duri con il passato, remissivi con noi stessi. Se usciamo dai confini patrii, non c'è che da scegliere. Il Nazareno, dall'alto dei suoi chiodi, perdona i suoi assassini, pur dopo aver detto: «Fate questo in memoria di me». Ecco allora, sfilarci davanti i vari Pol Pot, i capi degli attuali stermini al di là del Mediterraneo e i sempreverdi miti del male, Hitler e Stalin. Perdonare tutti? Credo di sì.
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