mercoledì 27 luglio 2011
Per il mestiere che faccio, io leggo parecchio, ma parecchio non vuol dire tutto e una volta, quando si era più giovani, ci si vergognava di dire questo non l'ho letto, quest'altro neppure, ma adesso non mi vergogno affatto di dire che questo e quest'altro non li ho letti, perché parecchio non vuol dire tutto e del resto non si può stare a leggere giorno e notte, tanto più se uno deve anche scrivere, oltre che mangiare, dormire e fare tutte le cose della gente normale, e comunque, anche a leggere ventiquattr'ore su ventiquattro, non si può leggere tutto. Per cui non mi vergogno di dire che di Paolo Nori non avevo letto nulla, anzi, non sapevo neppure chi fosse, ma mi è subito piaciuto il titolo del suo nuovo libro La meravigliosa utilità del filo a piombo (Marcos y Marcos, pagine 208, euro 14,50), perché io ho anche una certa abilità nel bricolage e il filo a piombo non l'ho mai usato. Allora vado sul web e apprendo che Paolo Nori è nato a Parma nel 1963, e che dopo il diploma di ragioniere ha lavorato in Algeria, in Iraq e in Francia, per poi laurearsi in letteratura russa e campare facendo discorsi in pubblico anche su argomenti di cui sa poco e traducendo autori russi, classici e moderni. Ha pubblicato molti libri, anche con Einaudi e Feltrinelli, e questo libro qui del filo a piombo è appunto un insieme di discorsi pronunciati in pubblico qua e là, dove lo invitano, e trascritti come sono stati pronunciati, senza corsivi e con punteggiatura come viene e viene, ma godibilissimi e così coinvolgenti che questa recensione mi viene da scriverla alla Paolo Nori ed è giusto così perché il critico (il recensore) è come un esecutore musicale, un pianista se si tratta di una composizione per pianoforte, o Von Karajan se c'è di mezzo un'orchestra al punto che se Beethoven sentisse la Quinta diretta da Von Karajan direbbe ma questa Quinta è migliore di come l'ho scritta, peccato che sono sordo.
E di che cosa parla Paolo Nori? Parla di sé, di quello che gli succede, in un flusso forse inconsapevole del flusso della Neoavanguardia, cioè del Gruppo '63, così che mentre Paolo Nori, nel 1963, veniva al mondo la Neoavanguardia apriva le cateratte del flusso narrativo per dire che non si poteva più dire niente perché la lingua era morta, uccisa dal capitalismo, e io nel 1963 già leggevo tutto questo e ci credevo, e in parte ci credo ancora, perché della Neoavanguardia ho letto tutto, e nella mia biblioteca c'è uno scaffale con un metro e 75 di libri della Neoavanguardia, tutti letti. Invece Paolo Nori qualcosa da dire ce l'ha e lo dice con l'aria di non dirlo, ma lo dice benissimo, anche attraverso le citazioni. Per esempio: «C'è un saggio bellissimo di uno studioso russo che si chiama Bachtin, il saggio si intitola La parola nel romanzo ed è pubblicato da Einaudi in un volume intitolato Estetica e romanzo, dove Bachtin dice che noi, le cose che diciamo, il cinquanta per cento non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo». E allora? È il discorso della difficoltà di essere sé stessi, cioè di essere liberi. E si può essere liberi nei regimi totalitari che uccidono gli innocenti, e anche nei regimi democratici che mandano alla sedia elettrica gli innocenti. Paolo Nori cita Epitteto: «Chi può impedirti di aderire al vero? Nessuno. Chi può costringerti ad accettare il falso? Nessuno». E cita anche Simone Weil che nel 1943 scriveva: «Quasi ovunque, e spesso anche per questioni squisitamente tecniche, il fatto di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, ha sostituito il fatto di pensare. È una peste che si è originata nel contesto politico e si è diffusa in tutto il paese, alla quasi totalità del pensiero». Per concludere, con Iosif Brodskij: «Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno». Sipario, applausi.
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