Èsolo una piccola cosa, anzi forse da niente. Ma ho notato, nelle settimane di lockdown a Milano, che incrociandoci per strada non ci si guarda più negli occhi. In questo quartiere tranquillo e ancora quasi popolare, dove almeno di vista ci si è reciprocamente familiari, incontrando qualcuno veniva naturale quel brevissimo scambio di sguardi di cui nemmeno non ci accorgiamo, e che è istintivo, nel trovarsi davanti un essere umano. Non è un saluto e nemmeno un cenno, eppure è un minimo segno di attenzione verso i nostri simili. (Nella vie più affollate delle grandi metropoli tanta è la moltitudine, che questo segno manca; e chi ci si trova per la prima volta ne ritrae un malessere, senza magari saper dire cos'è esattamente, che lo inquieta). Dunque, da quando giriamo con la mascherina fino agli occhi mi sono accorta che per lo più fissiamo diritti davanti a noi, oppure guardiamo in basso e non alziamo la testa verso chi arriva dalla parte opposta. Non c'è quell'istante minimo di attenzione, o curiosità, che riconosce nell'ignoto passante un uomo come te. Camminiamo come monadi con la nostra borsa della spesa, come volendo evitare ogni contatto con l'altro. “Contatto”, ecco forse questo è ciò che inconsciamente cerchiamo di evitare: come se nella grande paura dell'infezione anche il solo scambiarsi uno sguardo fosse cosa imprudente. Come se ogni “altro”, improvvisamente, fosse un potenziale nemico. Mi incupisce questa Milano paurosa, diffidente come non lo è mai stata. Penso al mercato dove portavo i bambini in passeggino, quando dai banchi le donne gridavano sorridenti: «Ciao, bel morettone!». Penso all'anziano signore che saluta sempre il mio cane con un deferente «Buongiorno, Generale!». La paura del contagio produce in noi una metamorfosi? E quando, torneremo come prima? Conto con ansia i giorni al 4 maggio, aspettando di ritrovare volti di sconosciuti, eppure cari.
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