Uno dei nostri filosofi più originali, Mario Perniola, pubblicò nel 2004 un saggio-pamphlet intitolato Contro la comunicazione (Einaudi). Un titolo magnifico, quasi un manifesto, la cui tesi centrale veniva così riassunta in copertina: «La comunicazione massmediatica, la cui influenza si estende alla cultura, alla politica e all'arte, sembra la bacchetta magica che trasforma l'inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da fattori di debolezza in prove di forza. Nel suo rivolgersi direttamente al pubblico, saltando tutte le mediazioni, essa ha un'apparenza democratica, ma è in realtà una forzatura che omologa ogni differenza». Ancora più sinteticamente: «La comunicazione è l'opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti».
Ricordo che accolsi quel saggio di Perniola con un certo sollievo. L'autore evidentemente non temeva l'accusa di essere un apocalittico e un catastrofista, né un nemico del Progresso. Nel suo saggio Miracoli e traumi della comunicazione (Einaudi), appena uscito, Perniola allarga il raggio della sua analisi. Partendo dall'idea molto condivisibile, secondo cui «i contemporanei non sono i migliori conoscitori del loro presente», l'autore riesamina alcuni eventi cruciali dell'ultimo mezzo secolo: il Sessantotto, la rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di Berlino e l'attentato alle Torri Gemelle. Eventi enormi: eppure "miracolosi" e quasi incredibili, traumatici ma anche misteriosi per la non chiarita consistenza sia delle loro cause che dei loro effetti. È come se gli eventi storici avessero perso peso e senso. Che cosa è veramente successo? Qual è il grado di realtà della storia che abbiamo vissuto e stiamo vivendo? Due cose sono certe: «il miracolismo mediatico» rende futili e vuote le esistenze individuali e la stessa esperienza umana nel suo complesso è paralizzata e vanificata.
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