Per alcune ore, nella tarda serata di domenica, l'Europa ha rischiato di tornare ad essere poco più di un'“espressione geografica”. La definizione, affibbiata all'Italia dal principe austriaco Klemens von Metternich alla vigilia della prima Guerra d'Indipendenza, è riaffiorata alla mente quando si è appreso che le autorità di Vienna avevano bloccato alla frontiera del Brennero un treno proveniente da Venezia con 300 passeggeri a bordo. Provvedimento deciso dal ministero della Sanità locale e revocato solo a notte fonda.
Ma il rischio di uno scompaginamento che può riaprire antiche divisioni non sembra del tutto scongiurato. Non solo perché contemporaneamente il governo della Romania ha imposto una quarantena domiciliare obbligatoria a chiunque arrivi o sia transitato da Lombardia e Veneto nelle ultime due settimane: decisione precauzionale comprensibile ma che limita notevolmente la libertà di circolazione. Non solo neppure per la richiesta di Marine Le Pen, leader della destra francese, di attivare controlli alla frontiera con l'Italia. Richiesta respinta per ora da Parigi.
Il punto che preoccupa è l'apparente carenza di una guida politica unitaria per affrontare davvero insieme, senza remore o seconde intenzioni nascoste, l'emergenza. La Commissione di Bruxelles ieri ha compiuto un passo, annunciando lo stanziamento di altri 232 milioni di euro per combattere l'epidemia sia all'interno che fuori dai confini comuni. Ma la responsabile cipriota per la sanità Kyriakides, pur lodando gli sforzi dell'Italia nell'opera di contenimento del Covid-19 ed esortando i 27 ad agire uniti, ha ricordato che l'eventuale decisione di introdurre controlli alle frontiere spetta ai singoli Stati membri, evitando di esprimersi sulla questione e chiedendo soltanto di condividere informazioni ed eventuali decisioni.
I trattati, è vero, stabiliscono che l'iniziativa in materia è dei governi nazionali. E così in effetti è avvenuto dopo gli attentati terroristici in Francia e in Germania a partire dal 2015, seguite da Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia in conseguenza delle crisi migratorie. In concreto, l'“area Schengen” è stata più volte sospesa su decisione unilaterale e lo rimane tuttora, al punto che da molte parti si parla di fine del sistema di libero transito ai confini interni. Anche perché il periodo massimo previsto dall'articolo 25 – due anni in tutto e solo in caso di “minaccia grave per l'ordine pubblico o la sicurezza interna” – appare già largamente superato.
È dunque giusto domandarsi, di fronte a una sfida inedita, se la risposta di Bruxelles è oggi all'altezza della situazione. Conta relativamente poco il fatto che l'emergenza provenga nella circostanza dal nostro Paese, a serio rischio di isolamento dagli altri partners in caso di aggravamento dei focolai di infezione. Perché domani il fenomeno può ripetersi per altre situazioni e in altre zone dell'Unione. Si tratta di capire che la Ue non ha un grande futuro davanti, se non si scelgono modalità concretamente condivise di governo degli avvenimenti. In caso contrario, le reazioni a catena che potranno riprodursi sono facilmente immaginabili.
Anche i tempi di reazione all'emergenza appaiono inadeguati. Il primo vertice di responsabili della sanità sul coronavirus cinese è stato convocato solo il 13 febbraio, quando le dimensioni del fenomeno a livello mondiale erano da tempo ben percepibili e i contagi avevano toccato più di un Paese membro. Si dirà che organizzare riunioni di 27 ministri non è semplicissimo. A maggior ragione sarà necessario affidare poteri e responsabilità a una cabina di regia (un “supercommissario”?) in grado di agire in modo tempestivo e senza passare per ogni capitale.
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