sabato 25 agosto 2018
Nel mese di marzo del 2010 Benedetto XVI, con un'iniziativa senza precedenti, volle indirizzare una lettera «d'incoraggiamento e sostegno» ai cattolici d'Irlanda, dove la Chiesa era stata squassata dalle fondamenta a causa dello scandalo causato dalla rivelazione di una lunghissima serie di abusi su minori che, per anni, aveva interessato praticamente tutte le diocesi del Paese. Era una lettera lunga, in cui la parte dove il pontefice esortava i fedeli a cercare nella fede la via d'uscita dal disorientamento causato dallo scandalo non attenuava l'altra parte, molto dura, in cui papa Ratzinger non faceva sconti a nessuno, chiamando in causa sia i colpevoli come anche i vescovi che, con i loro atteggiamenti omissivi quando non complici, avevano consentito che «questi atti peccaminosi e criminali» potessero verificarsi e perpetuarsi nel tempo. Parole che riassumevano il pensiero e l'azione con cui Benedetto, fino da quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, aveva affrontato lo scandalo della pedofilia nella Chiesa, introducendo il criterio della "tolleranza zero". Un atteggiamento che, dalla sua elezione dopo la morte di Giovanni Paolo II nel 2005 alla sua rinuncia del febbraio 2013, avrebbe contribuito in maniera decisiva alla lotta contro gli abusi e, fatto senza precedenti nella storia della Chiesa, portato oltre 100 vescovi alle dimissioni per colpe connesse a quegli abusi.
L'altro giorno papa Francesco, nel suo proseguire con altrettanto vigore e determinazione nell'opera di Benedetto, ha voluto nuovamente rivolgersi ai cattolici, questa volta «a tutto il popolo di Dio», dopo le scioccanti rivelazioni del "Pennsylvania report". E di nuovo abbiamo sentito parole forti per condannare queste pratiche abominevoli, ed espressioni accorate per incoraggiare i fedeli a non cedere allo scoramento e a farsi carico in prima persona del futuro di tutta la comunità dei credenti. Perché il punto è proprio questo: nessuno può chiamarsi fuori dall'impegno indispensabile affinché questa piaga sia sradicata, nessuno può dirsi estraneo a quello che non può che essere uno sforzo collettivo. Poco importa, in questo senso, che magari la mia Chiesa locale sia immune dal contagio, perché proprio come Benedetto ieri e oggi Francesco ci insegnano, ogni ferita fa sanguinare tutta la Chiesa insieme.
C'è in questo senso, tra le due lettere, una continuità pastorale veramente impressionante. Una continuità che, per essere evidenziata, non ha bisogno di chissà quali complicate spiegazioni, perché sta nella realtà delle parole stesse scritte dai due papi. La lettera di otto anni fa si concludeva con una lunga preghiera scritta da Ratzinger, i cui ultimi versi, prima dell'invocazione conclusiva, dicevano: «Possano la nostra tristezza e le nostre lacrime, / il nostro sforzo sincero di raddrizzare gli errori del passato, / e il nostro fermo proposito di correzione, /portare abbondanti frutti di grazia / per l'approfondimento della fede / nelle nostre famiglie, parrocchie, scuole e associazioni, / per il progresso spirituale della società irlandese, / e per la crescita della carità, della giustizia, della gioia e della pace, / nell'intera famiglia umana».
Se a questi versi togliamo l'aggettivo "irlandese" della terzultima riga, eccola lì: è l'ossatura della lettera che Francesco ha scritto l'altro giorno per il popolo di Dio, e sicuramente non è stata una coincidenza il suo arrivare alla vigilia del viaggio in Irlanda. Perché farsi
carico del problema è un dovere di tutti, a cominciare dai laici, dovunque sia la Chiesa. Il rischio, altrimenti, è di perdere questa guerra.
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