Scrivo mentre, in una parrocchia di Bologna, sono in corso le esequie di Gianlorenzo Manchisi, il bambino di due anni e mezzo morto dopo essere caduto, una settimana fa, da uno dei carri del "Carnevale dei bambini". Me lo ricorda su Facebook un breve e accorato post di Giovanni Panettiere, collega del "QN-Il Resto del Carlino" che scrive spesso di cose religiose, ma le cui parole questa volta ascrivo soprattutto alla sua condizione di giovane padre: «A tutti gli amici chiedo un pensiero o una preghiera per questo bimbo sfortunato e per la sua famiglia colpita dalla tragedia in un giorno di festa. Ciao». Una tragedia nella quale la blogosfera ecclesiale che frequento non si è particolarmente coinvolta. Oltre alla cronaca di "Avvenire" rintraccio solo quelle del "Faro di Roma" ( tinyurl.com/y55bn75p ) e del Sir ( tinyurl.com/yxwjp9hb ), e nessun commento. Ma chi vive nella stessa città, e vorrei dire nella stessa Chiesa, di Gianlorenzo Manchisi ha sentito davvero lo «strazio» per aver perduto un figlio proprio: lo ha detto l'arcivescovo Matteo Zuppi giovedì scorso in un'improvvisata conferenza stampa che si può vedere sulla pagina Facebook di 12Porte ( tinyurl.com/y29zte72 ), il settimanale tv della diocesi. Così che il «lutto cittadino» di ieri non è solo una cosa che le istituzioni civili hanno proclamato e che ha fatto abbrunare le bandiere, ma è un sentimento intensamente condiviso. Perché prima o poi, da bambini o da genitori o da nonni, a quella piccola sfilata che la Chiesa di Bologna, il Comune e altri enti promuovono, attraverso un apposito Comitato, dai tempi del cardinal Lercaro (davvero una cosa da bambini, inconfrontabile con le imponenti manifestazioni che si svolgono nei grandi borghi della provincia), tutti abbiamo partecipato. Perché già la morte di un bambino è inaccettabile; ma in quel giorno, in quella situazione, in quel modo, l'unica parola che trovi da dire è che è impossibile che sia accaduto davvero. E l'unica cosa che trovi da fare è abbracciare i suoi cari.
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