Jacques Vergès è un personaggio che definirlo inquietante è ancora poco. Nato in Thailandia nel 1925 da padre francese e madre vietnamita, partecipò alla Resistenza francese con De Gaulle e dopo la guerra si distinse come avvocato dei ribelli algerini e poi di criminali come Klaus Barbie e Khieu Samphan, capo dei khmer rossi. Avrebbe difeso anche Saddam Hussein se la sua famiglia glielo avesse chiesto. Egli, infatti, sostiene che anche il peggior delinquente ha diritto alla difesa, e in linea di principio non si può dargli torto. Di Vergès, la cui biografia ha un vuoto dal 1970 al 1978 (si dice che fosse in Cambogia), l'editore Liberilibri pubblica Gli errori giudiziari (pagine 184, euro 16,00), con una prefazione di Giuliano Ferrara non particolarmente ispirata. È un libro terrificante. I casi di innocenti condannati e tardivamente riabilitati (troppo tardi per chi era stato ghigliottinato) vanno dal classicissimo Dreyfus a celebri episodi di cronaca nera francese come il caso Dominici, il caso Marie Besnard, il caso Ranucci e altri più recenti. Gli errori giudiziari nascono soprattutto da pregiudizi anche ideologici dei giudici, e vengono complicati da confessioni estorte o non verificate, da testimonianze non escusse, da perizie contraddittorie, da solidarietà di casta. Quest'ultima causa spiega la reticenza ad ammettere l'errore giudiziario e addirittura la riluttanza a concedere adeguato indennizzo quando l'errore viene riconosciuto. E lo squilibrio fondamentale consiste nella mancanza di parità di condizioni fra accusa e difesa, talché Vergès sostiene che, nei casi più ostinati, alla difesa non resta che appellarsi all'opinione pubblica. Tutto ciò è accaduto in Francia, ma non c'è da consolarsi: un'analoga ricerca fra le sentenze italiane non lascerebbe tranquilli. L'aggiornamento sul nostro sistema giudiziario è offerto dalla postfazione del magistrato milanese Luigi Domenico Cerqua, che per lo stesso editore aveva nel 2008 postfato il romanzo di Pierre Boulle, La faccia, o Il procuratore di Bergerane, basato sull'errore giudiziario del pervicace procuratore Berthier. Questa volta Cerqua ragiona convincentemente sulla regola del giudizio «oltre ogni ragionevole dubbio», introdotta nel nostro ordinamento nel 2006, sulla scorta della giurisprudenza statunitense in cui tale principio ha dato luogo all'acronimo Bard («beyond any reasonable doubt»). Stante il principio della presunzione d'innocenza, insomma, il giudice, che come ogni essere umano è soggetto a errore, dovrebbe condannare solo se l'imputato risulta colpevole del reato contestato «oltre ogni ragionevole dubbio», essendo più grave condannare un innocente che lasciare in libertà un colpevole. Ed è significativo, scrive Cerqua, «che il codice attuale abbia accortamente schivato l'eterna seduzione del termine "verità" a favore di un'espressione più asettica: "accertamento del fatto"». Decisivo, pertanto, non è l'intimo convincimento del giudice, bensì la logica dell'accusa, provata «oltre ogni ragionevole dubbio». In efficace sintesi, una nota dell'editore indica quattro regole per prevenire gli errori giudiziari: 1. La più severa vigilanza sulla condotta del magistrato inquirente e di quello giudicante affinché la loro funzione non sia inficiata dalla passione o dal fanatismo; 2. La più assoluta e rigorosa applicazione del principio di presunzione di innocenza dell'imputato; 3. La più grande "lontananza" possibile (in senso fisico e professionale) del magistrato inquirente da quello giudicante; 4. L'obbligo per il magistrato di rispondere di fronte alla legge, ove abbia commesso gravi errori nell'esercizio della sua funzione.
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