Scegliere il 2 novembre per trasmettere su Real Time la miniserie Questa cassa non è un albergo dopo l’anteprima sulla piattaforma Discovery+, è stato sicuramente di cattivo gusto, per usare un eufemismo. L’irriverenza del docureality (di cui è poco comprensibile persino il titolo mediato da una canzone degli 883) è tale che almeno si poteva non farlo coincidere con la Commemorazione dei defunti. Ma così è stato. Giovedì in prima serata sono andati in onda i tre episodi di mezz’ora ciascuno che raccontano l’attività della famiglia Taffo, titolare dell’impresa funebre per esseri umani e animali che opera tra Roma e L’Aquila ed è considerata la più famosa d’Italia. Ognuno dei componenti ha un ruolo nella realtà aziendale e qui bene o male lo recita: Luciano Taffo, il boss, indossa una maglietta con su scritto «Vivi al massimo da qui fino ai crisantemi» e maltratta i dipendenti perché «il funerale non accetta repliche»; la moglie Luana è responsabile del servizio pet, ovvero della camera ardente per animali domestici, della loro cremazione e delle ceneri da consegnare al «congiunto» della bestiola in sofisticate urne soprammobile; uno dei figli fa il creativo e progetta materassini da mare a forma di bara da abbinare a colorati teli «rosa crisantemo, azzurro aldilà o grigio lapide» e promuove i diamanti dalle ceneri di cremazione con lo slogan «Anche tuo marito può diventare brillante». Fermiamoci qui. Il senso della serie è chiaro: è un tentativo un po’ maldestro di esorcizzare la morte, che andrebbe realmente vissuta con quanta più naturalezza possibile, ma questa, autoironia a parte, non è certo la chiave giusta. E menomale che ci vengono risparmiati i funerali. Alcune situazioni ritenute curiose sono ricostruite a mo’ di fiction. Resta una domanda: l’impresa funebre è il punto di arrivo dei reality o c’è la possibilità di spingersi anche oltre?
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