sabato 26 gennaio 2013
Milano, 1993. Ora ha sei mesi. Me ne sto con lui in braccio alla finestra, e guardo fuori. Davanti a casa c'è una caserma, si intravvedono nel cortile dei soldati, si sente il gridare rauco di un sergente. Sopra il muro c'è il filo spinato; e all'angolo, dentro una garitta, un ragazzo col fucile. A un mio movimento mio figlio quasi si sveglia, socchiude gli occhi, mi si rannicchia più stretto addosso. Dalla caserma ancora l'eco di passi cadenzati. È questo che mi fa pensare alla guerra? Con uno strano doloroso strappo però, come non mi era mai accaduto.Deve essere per via del bambino tra le braccia. Per la prima volta mi è evidente che tutti i soldati uccisi, massacrati, morti di stenti nelle trincee di ogni guerra, nel mondo intero, tutti, inesorabilmente, sono stati un giorno come questo mio figlio. Così fiduciosi, così inermi.È strano, non ci avevo mai pensato, neanche guardando i film, o le foto dai fronti. Vedevo i soldati e non pensavo alle madri. Per le madri i figli sono sempre figli, e non pedine di eserciti, o bandierine su mappe militari. Come mai lo capisco solo ora? È per via di questo figlio in braccio. Come una voce di viscere, che prende la parola. («Misericordia» in ebraico significa: con viscere materne. Un'altra pietà, che tutto perdona).
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