Scegliere un solo film tra i quasi cento interpretati da Totò? Ma mi faccia piacere, direbbe lui. Eppure non se ne può fare a meno, e non soltanto perché siamo a ridosso del 120° anniversario della sua nascita (15 febbraio 1898) e non troppo lontani dal cinquantennale della morte (15 aprile 1967). È che in qualsiasi tentativo, sia pure frammentario, di comporre una storia del cinema non si può proprio fare a meno di chiamare in causa l'inarrestabile Antonio De Curtis, lo scugnizzo che volle farsi principe di Bisanzio, la maschera che si rifiutò di restare un burattino, per quanto la sua ultima interpretazione, quella del surreale Jago del pasoliniano Che cosa sono le nuvole?, ci riporti al gioco del pupazzo comandato da una mano invisibile. Nella gag originaria invisibili erano anche i fili, che invece nel piccolo film d'addio si mostrano in tutta la loro crudeltà. È un tocco geniale, ma del resto ci voleva un genio come Pasolini per imporre in via definitiva la grandezza di un attore che fino ad allora aveva avuto il torto di essere troppo popolare, troppo amato dal pubblico, troppo fortunato al botteghino.
Un film solo non può bastare, ma con Totò, Peppino e la... malafemmina ci si avvicina abbastanza all'obiettivo. Siamo nel 1956, all'apice di una carriera iniziata nei teatri napoletani quasi trent'anni prima e da tempo consolidata in una serie di produzioni cinematografiche che sfruttano spesso il nome dell'attore come principale veicolo pubblicitario. Fra gli altri tre film che escono nello stesso '56 troviamo l'ammiccamento alla cronaca (televisiva, nella fattispecie) di Totò lascia o raddoppia? e il più didascalico Totò, Peppino e i fuorilegge, oltre all'apparentemente anomalo La banda degli onesti che si candiderebbe a sua volta a testimone eccellente della comicità decurtisiana. Se non avessimo a disposizione Totò, Peppino e la... malafemmina, si capisce.
Alla regia, in tutti e quattro i casi, c'è Camillo Mastrocinque, uomo di sicuro mestiere e capace di perfetta sintonia con Totò e con la sua spalla d'eccezione, Peppino De Filippo, che è un tonto vero così come l'altro è un finto furbo. Una dinamica che, come molti altri degli elementi ricorrenti nelle interpretazioni di Totò, viene dalla Commedia dell'Arte e prima ancora dalla tradizione novellistica. Solo che qui, nella storia dei fratelli Caponi saliti dalla Campania fino a Milano per salvaguardare l'onore di famiglia, ci siamo ormai spostati sul crinale di un cambiamento decisivo. Lo si capisce guardando i nomi americaneggianti dei comprimari, Teddy Reno che interpreta il nipote dei due e la bionda Dorian Gray (sì, è uno pseudonimo) nel ruolo della ballerina che ha fatto perdere la testa al ragazzo. I vecchi e i giovani, altro schema classico, con la purezza inarrestabile della nuova generazione che avrà la meglio sugli ingenui pregiudizi degli anziani.
Totò, Peppino e la... malafemmina si presta a questa e altre letture vagamente sociologiche (il viaggio dei protagonisti è lo stesso, dal Sud al Nord, compiuto in quegli anni da tanti emigranti), ma la sua importanza sta anzitutto nel farci comprendere come Totò non si esprima solo attraverso una comicità fisica, da burattino con o senza fili. Scene come quella, celeberrima, della lettera, con la profusione di punteggiatura che dovrebbe allontanare il sospetto di tirchieria, o il dialogo con il vigile nel fantomatico italo-francese di noio volevam savoir ci ricordano che il talento di Totò si esprime anche, e a volte principalmente, attraverso l'invenzione linguistica. La "malafemmina" del titolo, del resto, è la stessa della struggente canzone d'amore da lui composta. Perché dietro ogni maschera è sempre in agguato l'ombra della malinconia.
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