«Vocazioni in fiore!», dice il titolo di un lungo post di fratel MichaelDavide (Semeraro), che dal blog della “Koinonia de la Visitation” ( bit.ly/3dhYDGX ) sta rimbalzando qua e là nella blogosfera ecclesiale. L’autore riflette sull’imminente Giornata delle vocazioni per sottolineare ciò che, sul tema, la pandemia da coronavirus sta suggerendo alla Chiesa: una diversa comprensione dei ministeri e anche dei ministri ordinati, impoveriti dell’azione sacramentale ma arricchitisi di solidarietà fraterna. Dirimpetto a questo, un post sul blog al femminile “Martha, Mary and Me” ( bit.ly/2A4HuCx ), ripreso da “Aleteia”, raccomanda, un po’ provocatoriamente, di non aspettare la fine della pandemia per rispondere con il sacramento del matrimonio alla propria vocazione nuziale, magari rinviando a tempi «migliori» (quali? quando?) la festa esteriore. Altrimenti ci confermeremmo «incorreggibili» nel crederci «onnipotenti e immortali», mostrando di non aver imparato nulla dal tempo che stiamo attraversando. Di vocazione in vocazione, ecco materializzarsi sul mio schermo quella, matura, di suor Elisabetta Raule, intervistata per telefono da Francesca Sabatinelli per “Vatican News” ( bit.ly/2W6sKeF ). Comboniana, medico, è direttore sanitario dell’Ospedale San Giuseppe in Ciad, diocesi di Doba. Racconta come l’ombra dell’infezione si stia proiettando anche su quel presidio periferico, a motivo delle drastiche misure prese dal governo e sebbene il Paese conti finora «solo» 70 casi. Lei, che abitualmente descrive con tutta semplicità le drammatiche condizioni nelle quali si trova a operare, la definisce «un’esperienza molto forte». Parla a voce bassa e sembra che voglia tenere il temibile coronavirus lontano: per contrastarlo, dice, le mancherebbero sia gli strumenti diagnostici sia il materiale di protezione. Lì in Ciad le malattie che gli assomigliano, come la malaria, le infezioni respiratorie, la tubercolosi, fanno già «molta paura».
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