Sono passata da Porta Nuova, a Milano, l'altro giorno, alzando intimorita lo sguardo ai grattacieli di cristallo. Quand'ero molto piccola qui c'era la Stazione delle Varesine. Da casa mia vedevo arrivare, al mattino, i treni carichi di pendolari, e scendere gli impiegati che poi tornavano stanchi, la sera. C'era in particolare una giovane donna che, dalla mia postazione sul balcone, notavo ogni giorno: vestita di chiaro, svelta, ansiosa di arrivare puntuale. Non ne distinguevo il viso, ma ero certa che fosse carina.
Poi, le Varesine vennero abbandonate. Sul terrapieno si fermavano circhi e lunapark. Dal balcone però, nelle sere d'estate, l'orizzonte verso Ovest era infinito: in luglio un sole ardente come un tizzone ci cadeva dentro, adagio.
Ammetto quindi una freddezza verso i grattacieli di Porta Nuova. Si sono alzati davanti alla mia casa di un tempo, vertiginosi, e la sovrastano. La sera, sul balcone della mia infanzia si proietta scura la loro gigantesca ombra.
So bene che le città crescono e cambiano, mentre gli uomini passano. Ma, se cammino fra quelle torri, che straniamento. È così che si invecchia: lentamente, si diventa stranieri dove si è nati.
La sera però a piazza Gae Aulenti sotto ai grattacieli lucenti passeggiano gli innamorati, mano nella mano, e questo mi conforta. (Quell'impiegata giovane, vestita di bianco, chissà).
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