venerdì 24 aprile 2020
Cosa ci riserva il futuro non lo sappiamo, anche se tanti si affannano a prevederlo. Uno dei pochi che mi sembra sappiano guardare più in profondità è certamente il coreano Han, di cui “Avvenire” ci ha offerto riflessioni convincenti e necessarie. Come sarà il “nuovo mondo” del dopo–coronavirus? Certamente non migliore, forse molto peggiore di quello che abbiamo vissuto, fortunati a esserne stati figli di un’epoca di pace e di benessere per la maggioranza dei nostri connazionali e anche di tanti europei. Ma dopo? Sempre su “Avvenire” e appena ieri Lucia Capuzzi ci diceva che in America Latina l’epidemia frenava temporaneamente, ma senza affatto bloccarle, le lotte sociali in atto, destinate a ripartire, “dopo”, su scala probabilmente più vasta e radicale, ma anche contrastati dal potere in modi più radicali dei loro. In molti Paesi ci saranno movimenti, nelle basi della società, certamente meno superficiali che nel nostro, addomesticato da anni di egoismo e di convinto consenso, ancorché manipolato, al sistema vigente. Diciamolo: abbiamo in Italia una classe dirigente spesso pessima, e abbiamo un popolo che la genera perfino entusiasticamente, nei settori della politica. Che si presentano come nuovi e sono in realtà vecchissimi (hanno una lunga storia, e un antenato nell’Uomo Qualunque). Si celebra in questi giorni malamente, per ovvie circostanze, il 75° anniversario della Liberazione e di una Resistenza che fu l’opera di una minoranza di italiani che reagiva al dominio mussoliniano, una Resistenza che aprì a un’epoca di grandissime novità istituzionali e riforme sociali, prima sognate e poi volute e attuate da quella
minoranza. I nostri sono
tempi estremamente diversi da quelli e ogni paragone è impossibile. Ma è bensì possibile constatare l’assenza o la rarità di minoranze comparabili a quelle. La fragilità di due settori sociali fondamentali mi sgomenta sopratutto. Non è comparabile a quello di ieri il sindacato, che ha via via abbandonato il terreno (anche fortemente pedagogico) delle lotte per limitarsi alla difesa dei garantiti e dei pensionati; non lo è il mondo della scuola, dove abbonda come non mai, in ogni ordine e grado, il modello di quelle “professoresse” che gli allievi di don Milani detestavano, e dove lo scandalo maggiore è quello di un’università che è, ha scritto qualcuno, produzione di stupidi soddisfatti per mezzo di stupidi soddisfattissimi (i baroni e gli aspiranti baroni). Se i grandi pedagogisti di ieri dicevano che bisognava partire dai due punti cruciali dell’università e delle elementari per affrontare ogni idea di novità e di riforma, è doveroso constatare che nella prima è pressoché assente ogni idea di riforma non tecnologica e che nella seconda, le elementari, sta sempre di più allignando il modello “scuola media”. E che la formazione dei nuovi maestri non è mai stata così misera da quando è l’università a occuparsene centralmente. Grande, per esempio, è la miseria della pedagogia italiana contemporanea, con eccezioni che sono troppo rare per contare qualcosa, per lasciar sperare in un cambiamento di rotta. Qualche mutamento lo si avverte, non a caso, nel mondo del volontariato e dell’intervento sociale, nella chiave di un dinamismo provocato dai bisogni vecchi–nuovi evidenziati dall’epidemia, mentre non lo si avverte tra le migliaia di chiacchierini da blog, succubi del conformismo stimolato dai media e dal dilagante narcisismo epocale, che dà l’illusione di poter compensare la nostra impotenza e la nostra viltà. Ben poco si muove, infine, sul fronte di quei movimenti che sarebbero oggi indispensabili, e in legame stretto tra l’approfondimento teorico (lo studio di quel che cambia e nella prospettiva di quel che cambierà, peraltro facilmente prevedibile) e l’intervento politico (in rappresentanza e difesa, nella polis, dei diritti dei subalterni, anche di quelli convinti di non esserlo, anche degli “schiavi volontari”). Non ci sono risposte di disobbedienza civile, oggi più necessarie che mai, e non ci sono nuovi movimenti “politici” (ci sono semmai delle parodie dei vecchi). È qui appare massima la “castrazione volontaria” di intere generazioni, travolte dalle novità tecnologiche, dai produttori–venditori di una comunicazione che è più che mai a senso unico. Si spera insomma, e anzi si invoca, una ripresa del dibattito e dell’azione politica dal basso, da parte di chi fa e fa anche bene nel “sociale” ma studia e pensa poco e non si vede mai nella prospettiva di nuovi movimenti attivi e pensanti, di movimenti che possano contrastare la stupidità e la malvagità della politica con la kappa.
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