Per noi ragazzi romani degli anni Cinquanta, cresciuti giocando a pallone al Colle Oppio, di fronte al Colosseo, dove oggi vanno a rete in partite combattutissime gli immigrati sudamericani, è difficile superare il disincanto di cui sono intrise le parole di Qoèlet: «Una generazione se ne va e un'altra arriva, ma la terra resta sempre immutabile.» È questa una delle ragioni per cui sono diventato insegnante: se mi fossi illuso sulle «magnifiche sorti e progressive» a partire dalle quali ironizzava Giacomo Leopardi, non avrei trovato la forza per entrare ogni giorno in aula. Se vogliamo esercitare con profitto questo mestiere è necessario conservare come un gioiello prezioso lo stupore di fronte all'adolescente. Andare con la mente a quando eravamo come lui: pronti a mettere in gioco tutto ciò che avevamo pur di dare senso alla vita davanti a noi. Una volta a Spalato, in Croazia, fra le rovine del Palazzo di Diocleziano dove la gente ancora abita fra colonne spezzate e vecchie arcate macilente, vidi un paio di ragazzi esercitarsi nel palleggio all'interno del parco archeologico. Qualche turista storceva la bocca. I giapponesi scattavano foto. Io pensavo all'acqua del fiume che, come ci hanno spiegato gli antichi greci, a noi sembra sempre uguale ma non è mai la stessa.
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