In una delle circostanze più importanti della sua predicazione Paolo è partito per l'annuncio del Vangelo dai ragionamenti presenti nel libro della Sapienza e nella lettera ai Romani: Dio ha posto nel mondo i segni per riconoscerlo. Fu la volta in cui l'apostolo si trovò nientemeno che nell'areopago di Atene, il centro pulsante della cultura greca. Il suo discorso (At 17,22-31) parte dal riferimento "a un dio ignoto" che Paolo identifica come «il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra» (17,24). Poi l'apostolo passa a una stringata, ma convincente presentazione dell'ordine di tempo e spazio così ben funzionanti per uno scopo preciso: al loro interno l'essere umano può cercare Dio, anche se brancolando qua e là perché è proprio lì che lui è vicino a ciascuno di noi. Questo dà la possibilità di raggiungerlo: «Arrivino a trovarlo perché non è lontano da ciascuno di loro» (17,27). Paolo fa poi una citazione poetica: «Perché di lui anche noi siamo stirpe». Queste parole potrebbero essere di Arato di Soli nella sua opere Fenomeni, oppure di Cleante nel suo Inno a Zeus. Entrambi gli autori sono del III secolo avanti Cristo. Se i due pensatori letterati hanno colto il legame su cui Paolo punta per esordire nell'annuncio evangelico perché non potrebbero arrivarci anche gli ateniesi? Perché la strada dell'evangelizzazione non può partire da lì per qualsiasi pagano?
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