È questa «la missione delle parole di luce: vincere la notte, ogni tipo di notte, oscurità o freddezza. Si tratta, direbbe Cormac McCarthy, di “combattere con le parole”, le vere spade laser capaci di penetrare nella profondità dell'ombra e spalancarla alla luce». Con queste parole don Alessandro Andreini, assistente ecclesiastico dell'Ucsi in Toscana, conclude sul sito dell'associazione ( tinyurl.com/y72bvjwy ) una sua suggestiva riflessione sulla «sfida di notiziare il Natale». Ovvero su come le luminose parole chiave dei Vangeli che leggiamo e ascoltiamo nelle liturgie di questi giorni possano riflettersi nel lavoro giornalistico. Il suggerimento è quello di prendere esempio da Maria, il cui custodire e meditare nel cuore le cose che le accadono evoca, dice don Andreini, un approccio giornalistico fatto di confronto «con la vita, con le sue ferite, le sue paure, le sue chiusure invincibili».
Mi è parso di vedere tutto ciò concretizzarsi in un post apparso ieri su Facebook, nel quale Fabio Colagrande ha condiviso con gli amici l'encomio pubblico di una squadra del 118 che la sera della vigilia di Natale ha soccorso, purtroppo invano, una sua anziana parente colpita da ictus. «Nel dramma di questa vigilia mi è rimasta una luce», scrive infatti con parole di riconoscenza raccontando il comportamento di quei medici e infermieri. «Giunti quando ormai la situazione era disperata», prima «hanno fatto tutto il possibile, con efficienza e passione», e dopo si sono rivolti con «le parole giuste», «misurate e affettuose», certamente parole di luce, ai familiari, «dimostrando autentica e sincera compassione», per poi andarsene «a testa bassa, sconfitti, come se avessero perso anche loro un parente caro». Mi si obietterà che l'ispirazione cristiana dei protagonisti di questa parabola non è né certa né dimostrabile. In effetti a connetterla alla festa della nascita di Gesù ci sono solo la data e un berretto da Babbo Natale indossato, annota Colagrande, da uno degli infermieri. A me bastano.
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