La definizione di classico ha affaticato ininterrottamente i critici, da Gellio (II sec. d. C.), che la riconduceva all'etimologia legata al censo («classici venivano chiamati non tutti coloro che erano compresi nelle prime cinque classi, ma solo gli uomini della prima classe che erano stati censiti per almeno 125.000 assi»), fino ai nostri giorni. Dalle tante definizioni, ne trascelgo alcune. Eliot tipizza Virgilio come «il nostro classico, il classico di tutta l'Europa» perché «interprete, misura e quindi canone di un'intera civiltà»; Italo Calvino chiama classico «un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire»; per Umberto Eco classici sono «quegli autori che abbiamo odiato a scuola a causa dei professori, che poi abbiamo riscoperto e amato perché allungano la vita»; per Alfonso Traina «classico è uno che ha scritto per noi»; per Massimo Cacciari è uno che ci tutela dal potere, perché «chi abbia letto una sola tragedia greca, una sola "invettiva" dantesca, un verso della Ginestra, saprà ascoltare, saprà riconoscere i propri limiti e il valore altrui - ma passivamente obbedire mai»; per il grande critico dantesco Osip Mandel'stàm classico «è ciò che ancora ha da essere». Ecco, questa, è la scritta che dovrebbe campeggiare all'ingresso di tutte le nostre scuole.
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