Citati e Calasso vedono dèi ovunque, ma il romanzo cerca l'«aspra verità»
sabato 23 luglio 2011
Quando un'idea o una tesi sono belle da illustrare e da dimostrare, possiamo anche momentaneamente accettarle. Ma poi quel momento passa: sulla suggestione e l'incantesimo dell'eloquenza prevale la mente che discrimina e verifica. In un lungo articolo sul "Corriere della sera" del 17 luglio («Gli dèi greci abitano il romanzo moderno») Pietro Citati ipnotizza i suoi lettori raccontando due fra le massime figure della mitologia greca, Apollo e Ermes. Come il suo amico, editore e seguace Roberto Calasso, anche Citati ha in testa questa idea: gli dèi (greci e non solo) vivono e agiscono fra noi, ma gli uomini non li vedono. Per vederli ci vogliono occhi chiaroveggenti, menti molto più profonde o molto più superficiali di quelle comuni nell'Occidente moderno. Ma gli scrittori appartenenti a quella che Calasso definì «Letteratura assoluta» riescono a vedere gli dèi e ne parlano nei loro libri.
Pochi lettori se ne rendono conto, pochi ci credono. Io mi sento a metà strada: vedo e non vedo. Non c'è attributo e potere di Apollo e di Ermes, Afrodite o Juppiter che non siano presenti nella realtà. Ma la letteratura moderna non è solo quella di Goethe e di Nabokov. I romanzieri hanno quasi sempre fatto a meno degli dèi. È più facile e più vero, credo, vederli come lettori della Bibbia e soprattutto dei Vangeli, a cominciare dai due più grandi realisti, Dostoevskij e Tolstoj. Nessuno dei due fantastica, tutti e due, come i loro maestri Stendhal e Balzac, vogliono anzitutto «l'aspra verità», oltre la quale, più vero ancora, c'è solo Cristo.
In poesia le cose possono andare diversamente. In poesia ogni mito è di casa, perché è di casa la nostalgia del mito. Ma il romanzo funziona meglio se muove creature viventi in una società da cui gli dèi sono fuggiti. Una soluzione intermedia la offre Auden, quando dice che ogni poeta, quindi anche lui, preferirebbe essere politeista, anche se è cristiano. Qui tutto sta (realisticamente) fra l'essere e il preferire, che nell'umana condizione quasi mai coincidono.
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