Relativizzata la cerchia confessionale, la religione è diventata uno stimolante terreno incolto per la produzione scientifica e culturale più disparata. È un fenomeno apparentemente inesauribile di mediatizzazione nel quale tutti hanno qualcosa da dire: sociologi, antropologi, pensatori di teoria politica, romanzieri… Ai giorni nostri vanno acquisendo plausibilità, applicate al religioso, espressioni che agli orecchi di altri secoli sarebbero parse del tutto insolite, come «restrizione di campo», «riconfigurazione», «dislocazione alla sfera intima», «cambiamento di ruolo sociale», «religione implicita», tutte espressioni che dicono molto del processo epocale in cui ci troviamo. È un processo che s'intuisce essere di lunga durata e non solo esterno alle religioni. Anche all'interno di queste, del resto, si avvertono riverberi equivalenti. Per esprimere il rimescolio interno al religioso, Danièle Hervieu-Léger ricorre all'espressione «religione in movimento», intendendola come il complesso e diversificato processo di autoricomposizione in atto (e particolarmente nell'universo religioso cristiano occidentale). In questo clima dominato da una certa esitazione, c'è anche spazio per posizioni più esasperate, come quelle di chi sostiene: «Sarà necessario, un giorno, che ci sbarazziamo di questo termine fallace: religione» (Régis Debray). In una esilarante scena di un film di Pedro Almodóvar, una scrittrice di gialli in crisi creativa dice: «Non è facile sbarazzarsi di un cadavere». Ora, nel dibattito tra religione e modernità, proprio questo imbarazzo o, per dirla con più rigore, questa impossibilità radicale per un polo di escludere l'altro continua ad essere uno dei caratteri più costanti e, forse, più gravidi di futuro. Marcel Gauchet, per esempio, si appropria della formula «disincanto del mondo» per un significativo viaggio nel paesaggio della modernità. La proposta di Gauchet non consiste nell'annunciare la fine della religione, quanto piuttosto nel descrivere le trasformazioni che l'epoca contemporanea registra. E lo fa attraverso una categoria inusuale, che mi sembra non avere ancora ricevuto l'attenzione critica che merita: la nozione di resto. Mettendo in evidenza la dialettica tra il declino della religione in quanto funzione sociale e la sua persistenza sul piano personale, l'autore parla di «un resto, forse inalienabile» che è possibile osservare in determinate esperienze di vita fondamentali. Si prendano, per esempio, tanto l'esperienza estetica come l'esperienza enigmatica che noi costituiamo per noi stessi. Per Marcel Gauchet, la nostra capacità di emozione davanti all'impetuoso spettacolo delle cose proviene, in un modo vitale e profondo, dall'inscrizione nell'essere, e attraverso tale inscrizione noi comunichiamo con ciò che per millenni è stato il senso del sacro. Ciò che sicuramente può scatenare un dibattito interminabile è da lui sintetizzato in limine: «L'arte, nel senso specifico in cui noi moderni la comprendiamo, è la continuazione del sacro con altri mezzi». D'altra parte, se c'è qualcosa che riassume la coscienza che noi andiamo acquisendo di noi stessi, è il fatto di costituire un enigmatico oggetto di pensiero. Noi siamo una domanda che si sovrappone alle risposte che esistenzialmente (o storicamente) andiamo trovando. Le nostre società diventano psichicamente estenuanti per gli individui, e sembra mancare un supporto per le difficili questioni che soffiano in noi con maggior frequenza: «Perché proprio a me?»; «Che fare della mia vita quando devo decidere da solo?»; «A che serve vivere, se dobbiamo scomparire senza lasciar traccia?». È dunque un resto di religione quello che si osserva in questo dolore umano, mai del tutto risolto. Per questo, anche quando si direbbe che di Dio nulla resta, egli invece rimane, e si insinua sempre più di quanto noi non crediamo. (con questo articolo si chiude la rubrica “Chiamate in attesa”. Le traduzioni dal portoghese sonostate realizzate da Pier Maria Mazzola)
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