Ci sono tragedie nella storia dell'uomo ancora più odiose perché avvolte nel mistero, nascoste dalla menzogna. Sono trascorsi oltre diciotto anni dal disastro del Kursk, e forse oggi in pochi ricordano cosa accadde nell'agosto del 2000, quando il sottomarino nucleare russo K-141 si inabissò nel mare di Barens. Per 192 ore i marinai lottarono per la sopravvivenza mentre le loro famiglie ingaggiavano una faticosa battaglia contro la negligenza dei politici, la lentezza della burocrazia, l'inefficienza dei soccorsi. Alla fine gli uomini del Kursk morirono tutti lasciando 72 orfani, vedove inconsolabili, genitori distrutti da una tragedia che poteva essere evitata se solo i russi avessero avuto l'umiltà di accettare prima l'aiuto offerto della marina inglese e da quella norvegese. Ma il desiderio di evitare la pubblica umiliazione spinse i russi e ritardare l'intervento degli stranieri provocando così 118 morti. Quelle tragedia è ora diventata un film diretto dal danese Thomas Vinterberg, interpretato da Matthias Schoenaerts, Colin Firth, Lèa Seydoux, Max Von Sydow e presentato al Zurich Film Festival. Basato sul libro di Robert Moore, A Time to Die: The Untold Story of the Kursk Tragedy, adattato per il grande schermo da Robert Rodat (lo sceneggiatore di Salvate il soldato Ryan), Kursk procede su un doppio binario narrativo, quello del racconto degli uomini intrappolati nel sommergibile e quello che restituisce gli sforzi per salvarli, la disperazione dei parenti e l'imbarazzo del governo.
Vinterberg realizza qui un film all'americana, pensato per il pubblico che ama la netta distinzione tra bene e male. Qui i cattivi sono i russi, che lasciarono morire i loro marinai per non perdere la faccia davanti al mondo, mentre britannici e norvegesi sono dipinti come “i nostri”, chiamati a risolvere ogni problema all'ultimo momento.
Alessandra De Luca
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