venerdì 3 ottobre 2014
Ci sono feste e feste, ma certo la prima festa nazionale della suocera che si è svolta domenica a Rocchetta Tanaro ha un sapore particolare. Celebrare la suocera? Nessuno mai ci aveva pensato. Eppure, in questo paese dell'Astigiano conosciuto in tutto il mondo per la sua Barbera, la suocera viene evocata dalle lingue di pane che un panettiere intraprendente ha fatto conoscere ovunque. In ogni caso domenica, sul palco con la suocera dell'anno, che era Iva Zanicchi, si sono fatte riflessioni, tra il serio e il faceto, sulla suocera che ad un certo punto, volenti o nolenti, entra a far parte della famiglia. E ci entra talvolta con una certa diffidenza, reciproca da entrambe le parti, giacché fa parte della natura umana, che si fa accorta quando si tratta di conoscere. Certo, a vedere anche questo tipo di rapporti con gli occhi della fede tutto cambierebbe, ma la fede è un cammino, non certo una cosa da dare per scontata. E allora c'è un'introduzione comunicativa nel rapporto fra suoceri e nuore, che ha un codice, spesso proprio nel cibo. La tavola è il luogo dove si viene introdotti a partecipare di una nuova comunità. Potrebbe non parlare la suocera, ma i suoi piatti, che al debutto devono essere al massimo, parlano da soli. C'è poi il problema che la suocera, di solito, è restia a svelare le sue ricette alla nuora. E così rischia di interrompersi, come in molti casi s'è interrotta, la catena della cucina tradizionale italiana. La suocera vuol essere ricordata per qualcosa di impareggiabile, di unico, che sapeva fare solo lei. Qualcosa di non replicabile. Una ricetta, appunto, una cosa che riesce, che è fonte di ricordi ed evocazioni. Nei giorni a seguire sono capitato nella sede della Dante Alighieri a Roma, un'opera benemerita dedicata alla salvaguardia della lingua italiana e al rapporto con le nostre comunità sparse nel mondo. Soprattutto in Sudamerica. E lì ho letto i risultati di una ricerca, svolta con la rivista "Il Gambero Rosso", sulle preferenze dei nostri emigrati in fatto di cibo, per constatare quanto sia sorgivo il tema, che evoca un'appartenenza certa a una terra, a una comunità. Curioso scoprire che i prodotti italiani più conosciuti sono il cappuccino, l'espresso, il limoncello, il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, la pasta all'uovo, il gelato, l'olio e il tiramisù. Anche mia cugina, che è nata in Argentina da padre italiano, conosce alla perfezione le ricette delle nostre terre. Ma la stessa cosa l'abbiamo sentita dal Papa, che ha origine nel medesimo Monferrato. Cosa vuol dire tutto questo? Che il cibo e il vino sono dei narratori. Dei custodi: di una storia e di una preferenza. Ecco perché l'omologazione dei gusti non è la cosa giusta: può solo impoverirci, come più povero rimane chi non è cosciente della storia del proprio Paese. E dentro a una storia, quante volte il cibo è subentrato ad aprire capitoli di straordinaria saggezza.
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