Si è parlato tanto della tragedia, fortunatamente soltanto sfiorata, nel corso della seconda giornata dei Campionati Europei di calcio. Quando Christian Eriksen, centrocampista della Danimarca e dell'Inter, è caduto esanime a terra con il cuore improvvisamente fermo durante la partita contro la Finlandia, sono successe una sequenza di cose che assumono un significato ancora più profondo alla luce del lieto fine della vicenda.
In quei venti minuti, durante i quali Eriksen era sdraiato sull'erba dello stadio di Copenaghen, abbiamo visto la lucidità di un suo compagno di squadra, il capitano Simon Kjaer, capace di intervenire dopo pochi secondi evitandogli la morte per soffocamento. Abbiamo visto lo stesso Kjaer disporre i suoi compagni di squadra in una specie di formazione oplitica intorno a quel ragazzo steso a terra, per proteggerlo dalla morbosità delle immagini televisive, abbiamo intuito la professionalità e l'efficacia dell'intervento dei medici che hanno letteralmente riportato alla vita un giovane atleta che era ormai andato via, abbiamo visto l'allenatore della Danimarca correre incontro alla moglie di un uomo, padre di due figli, che stava combattendo per la vita.
Abbiamo visto una donna con addosso la maglietta numero dieci della Danimarca scossa dal pianto disperato di chi era lì, fisicamente a pochi metri, ma che non capiva e non poteva avvicinarsi. Abbiamo visto quello stesso capitano andarle incontro, tentare di spiegare, portare speranza, conforto, un abbraccio. Abbiamo visto una processione accompagnare Eriksen fuori dal campo, su una barella, scortato ancora dai suoi compagni e coperto da alcuni teli, fra i quali una bandiera finlandese. Poi, nessuna notizia per un tempo che sembrava infinito, mentre i tifosi sugli spalti restavano al loro posto per sapere, intonando cori struggenti con i tifosi finlandesi che urlavano "Christian" e quelli danesi rispondevano "Eriksen", con il ritmo di un battito cardiaco, verrebbe da dire.
Finalmente, dopo altri venti minuti, le buone notizie: Eriksen era sveglio, cosciente, addirittura in grado di parlare ai suoi compagni per tranquillizzarli e chiedere loro di proseguire la partita. È proprio a quel punto che è successa la cosa più umana, più piccola, più dolce. Simon Kjaer, quel capitano coraggioso capace di tenere sotto controllo un numero infinito di cose e di emozioni, quando la paura era passata, il gioco ricominciava e si tornava alla normalità, si è rivolto al suo allenatore chiedendo la sostituzione. Aveva speso tutte le sue risorse nervose in quei minuti tragici, stava crollando e si rendeva conto di non poter più essere utile in campo.
A conclusione di una storia di terrore, di grandezza, di forza, di coraggio, quella fragilità ci riconnette con la nostra dimensione umana. La fragilità di un cuore che smette di battere come incipit e, alla fine, la fragilità di un cuore che ha completato tutti i suoi doveri e si lascia andare, rinunciando a un'idea di superomismo, permettendoci di sentirci tutti potenzialmente capaci di essere all'altezza, forti quando è difficile esserlo, ma senza rinunciare alla consapevolezza dei limiti della nostra umana condizione.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: