In un baretto di Torrimpietra, litorale romano, mi aspettava il “Fu Mattia Pascal” del calcio, Alviero Chiorri. Esistenza pirandelliana, quella del funambolo più irregolare degli anni '80, che tra essere uno o centomila a 33 anni preferì smettere e diventare «nessuno». Lo ritrovo - per intercessione della madre - uomo maturo: via i riccioli d'oro dello scapigliato di Marassi, codino mesciato su una faccia abbronzata dal sole de L'Avana. Di politica e del fu Fidel non parla, ma racconta di amori genovesi, della musica degli amici New Trolls, del sergente Bersellini e dell'esordio da «minorenne» in A, con la Samp. E ancora, del «prestito punitivo» al Bologna, in cui trovò i “gemelli” Mancini&Macina. «Macina era il più forte, ma la differenza la faceva Mancini, più potente, più calciatore, più testa». La testa, Alviero, la perse, e il patron della Samp Paolo Mantovani, in lacrime, lo congedò. «Mi disse solo: “Sei stata la più grande delusione della mia vita”. Quella frase la sono portata dentro fino all'ultimo minuto in campo». Una dannazione interrotta il 24 maggio '92: ultima sfida prima di sparire, proprio contro la Samp. Uno sguardo alla Sud di cui resta l'eterna delizia, «perchè ho sempre cercato la giocata impossibile, l'ho fatto per divertire la gente», e l'altro, alla panchina, «sono stato la croce degli allenatori... quelli, li ho fatti dannare, tutti».
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