Sarei davvero contento - da appassionato addetto ai lavori - se il ragazzo che ho ammirato domenica sera, classico bisillabo brasileiro, Pato, fosse quel fenomeno che è parso nel corso di Milan-Napoli.
Ho già raccontato che quest'anno è cominciata la mia cinquantesima stagione professionale, ognuna delle quali - volendo - segnata dal battesimo di un campione. A cominciare da Gianni Rivera, che esordì in campionato a 16 anni non ancora compiuti e in Nazionale a meno di 19, non solo per i miei occhi, naturalmente, ma soprattutto per quelli di tutte le Mamme d'Italia che lo adottarono e ribattezzarono Bambino d'Oro, Golden Boy per le turbe da stadio. Guarda caso, interpellato sull'illustrissimo predecessore milanista, Pato ha dichiarato: «Non so chi sia...».
Non gliene faccio una colpa: al Milan il ricordo di Rivera non è amato né tantomeno celebrato, son certo che il clan berlusconiano lo cederebbe volentieri all'Inter, eppure Gianni per molti è tuttora
un punto di riferimento a dir poco storico.
Per quel che mi riguarda - dicevo - è partita da lui la lunga serie di campioncini che ho «recensito» dal '58 ad oggi; rapidamente ne ricordo - dopo Rivera - quattro, essenziali. Da una lista fortunatamente molto più lunga: Mancini, Maradona, Roby Baggio e Totti. Pato, al momento, di costoro ha solo l'età d'esordio. In compenso, è costato molto di più e ha goduto di un lancio «pubblicitario» molto più importante, secondo stile berlusconiano e anche grazie alla facilità con cui, oggi, nascono le stelle.
Ha tutto, Pato, anche dal punto di vista tecnico, fortunatamente; non sappiamo, piuttosto, di che tempra sia quando infuria la battaglia: il Napoli, purtroppo, non gli ha creato tanti problemi, s'è comportato da generoso sparring partner, per una buona mezz'ora ha tenuto il campo, poi ha fatto - alla San Gennaro - due miracoli: ha resuscitato Ronaldo e lanciato mediaticamente Pato.
Se ricordo bene l'esordio di Maradona, rieccomi al Bentegodi con il Verona di Bagnoli: il saggio Osvaldo gli mise alle costole Hans Peter Briegel che avvolse Dieguito come se fosse un cappotto e lo nascose alla famelica curiosità dei tifosi partenopei. Fu la fortuna di Maradona, perché in un colpo solo capì cosa fosse il campionato italiano - il più difficile, se non il più bello del mondo - e
di lì in avanti alternò l'esibizione delle proprie immense capacità al folgorante gioco di squadra, trasformando i suoi compagni in campioni. Proprio come Mancini, Baggio e Totti. O - se vogliamo proprio dirlo - i grandissimi Alfredo Di Stefano, Pelé e Platini. Ma questa è un'altra storia. Adesso, caro Pato, tocca a te far grande la squadra, che ne ha bisogno. Rivera con il Milan ci riuscì. Spero che qualcuno ti racconti come, quando e perché.
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