Sono trascorsi quasi 800 giorni dalla scomparsa in Egitto di Giulio Regeni e dal successivo ritrovamento del suo corpo orribilmente torturato alla periferia del Cairo. Nei giorni scorsi le sconsiderate parole del magistrato Enrico Zucca, che ha di fatto equiparato la vicenda del giovane friulano a quella del G8 di Genova nel 2001, hanno avuto almeno l'indiretto "merito" di rilanciare il caso sulla ribalta nazionale. Ma solo su quella, perché invece il silenzio attorno a Regeni resta quasi assoluto sullo scenario europeo, dominato in queste ore, con risalto incomparabilmente maggiore, dalla guerra diplomatica con la Russia, in seguito all'attentato con gas nervino contro l'ex agente segreto Sergei Skripal e sua figlia.
Fin dall'esplodere del suo caso, del resto, la tragica fine del ricercatore italiano ha goduto in ambito comunitario di un duplice ed opposto trattamento: grande risalto a livello di Europarlamento, attenzione appena accennata e ben presto svanita da parte dell'esecutivo (Commissione e Consiglio dei ministri). Eppure, oltre che figlio di un Paese fondatore, Giulio era a tutti gli effetti un "cittadino europeo", come ben specificato dal suo passaporto e dal lavoro che svolgeva per un'istituzione inglese di antico lignaggio.
Così del resto sottolineava la risoluzione, approvata a stragrande maggioranza il 10 marzo di due anni fa dall'assemblea di Strasburgo, che ne condannava «fermamente la tortura e l'assassinio». E che chiedeva agli Stati membri di esercitare adeguate pressioni sull'Egitto perché facesse luce sul crimine, tra l'altro sospendendo forniture di strumenti capaci di conculcare o violare i diritti umani. Nei mesi successivi, i genitori di Regeni venivano accolti proprio dalla Commissione per i diritti umani e lanciavano accorati appelli a non far calare il sipario sulla loro tragedia.
Il Parlamento in realtà non li ha abbandonati. Ancora l'8 febbraio di quest'anno, una nuova risoluzione ha ribadito sdegno e condanna, ha denunciato l'assenza di progressi nell'inchiesta e si è impegnato a sollecitare dalle autorità della Ue nuove iniziative verso il governo egiziano. Ma ce n'erano state, di iniziative concrete, in precedenza? Come lamentava nel suo soggiorno in Belgio la signora Paola, madre di Giulio, «sentiamo un vuoto», un'assenza di fatti reali. E concludeva: «basta commemorazioni, vogliamo azioni».
Di azioni effettive, però, in questi due anni e due mesi, non se ne ricordano. L'Alto Rappresentante per la politica estera della Commissione, l'italiana Federica Mogherini, incontrando i coniugi Regeni durate la loro visita, assicurò loro di aver sollevato personalmente il caso con il Ministro degli esteri egiziano Shoukry. Ma da quel 10 giugno 2016 non sembra si sia mosso nulla. Non risultano più nemmeno dichiarazioni ufficiali da parte di Commissari dell'Unione, Mogherini compresa. Un caso classico di "doppio binario" all'insegna di una malcelata ipocrisia: da un lato l'assemblea parlamentare che parla e scrive documenti, dall'altro i detentori del potere reale che non muovono un dito.
A voler essere sinceri fino in fondo, anche il nostro governo non sembra essersi dannato l'anima per chiedere ai partners comunitari gesti decisi e comuni, tali da convincere gli egiziani a piantarla con le finzioni e a tirare fuori verità e colpevoli. E lo stesso ritorno del nostro ambasciatore al Cairo, a metà dell'anno scorso, può ben essere apparso un segnale di rassegnazione, aldilà delle rassicurazioni formali di Alfano.
Ben altro piglio sta mostrando la Ue nei confronti della vicenda della spia russa colpita a Salisbury. Pur in assenza di prove certe di colpevolezza, siamo arrivati già al richiamo del rappresentante dei "27" da Mosca, oltre che alla raffica di espulsioni da parte di Gran Bretagna e altri 14 Paesi della Ue. Certo, l'attentato è avvenuto "in casa" (la Brexit è ancora in fieri) e la sua modalità desta grave allarme. Ma basta questo a giustificare due pesi e due misure così abissalmente lontani fra loro? O la solidarietà europea è destinata sempre a inchinarsi alla realpolitik?
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