Il grande regista indiano Satyajit Ray, autore della meravigliosa “Trilogia di Apu” e di moltissime altre pellicole non abbastanza note in Italia, raccontò che la sua infanzia era stata come un «bioscopio personale»: la costante sorpresa di un guardare grazie a un proiettore inventato. Passava lunghi pomeriggi d’estate nella grande casa a Calcutta osservando auto, biciclette, risciò muoversi in direzione diverse e tutto vedendo dallo spioncino della porta d’ingresso davanti al quale aveva avuto l’idea di collocare un pezzetto di vetro satinato. Era il principio della fotografia, ma lui non lo sapeva. Era il suo destino di regista, ma ancora non poteva saperlo. Nel 1984 diresse “La casa e il mondo”, film tratto dall’omonimo romanzo di Tagore. Una vicenda che racconta dell’indipendenza dell’India, ma anche, un titolo che di per sé tornava a rievocare quell’infanzia di sguardi puntati come un proiettore sul mondo fuori. In un documentario-omaggio dedicatogli da Goutan Gosh, Ray peraltro racconta che quando non era sui set a filmare, non usciva mai di casa. La realtà aveva imparato prestissimo a osservarla da dietro una porta, e l’incanto di quel guardare appartato ma infallibile non lo ha lasciato mai, di film in film affinando e riconfermando il suo sguardo intriso di magia e di poesia.
© riproduzione riservata
© Riproduzione riservata