Ogni
tanto ai linguisti scappa la mano e rivelano imperterriti il carattere
scientificamente “avalutativo” della loro disciplina. Quando si mettono a
studiare la lingua letteraria, per loro un autore vale l’altro, il fenomeno linguistico
da schedare salta in primo piano e tutto il resto conta zero: “Cribbio, io sono
un linguista! L’estetica la lascio agli esteti!”. Insomma, pare che la
deontologia del linguista descrittivo (non prescrittivo!) nasconda un’etica per
cui valgono i fatti e non i valori, perché ai fatti non si dice mai sì o no: si
registrano e basta. Nel caso della linguistica applicata ai testi letterari si
aggiunge spesso un difetto ulteriore: la disinformazione, la non competenza
letteraria, la tentazione di prendere per garantiti prodotti letterari recenti
e di moda, fino a dimenticare eccellenti autori di ieri o classici di un secolo
fa. Questo non succede, per esempio, a linguisti come Mengaldo e Beccaria, che
sono anche critici letterari. Ma in un recente volume dedicato alla prosa
letteraria italiana, a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo
Tomasin (è il secondo dei tre volumi della Storia dell’italiano scritto edita da Carocci) si nota
una serie di inspiegabili lacune. Anzitutto che la saggistica è assente e che
forse gli autori dei vari capitoli non conoscono neppure il significato della
parola “saggio”. Vengono ignorati del tutto Gramsci, Gobetti, Carlo Levi, Praz,
Longhi, Debenedetti: questi ultimi considerati da Gianfranco Contini due fra i maggiori
prosatori del Novecento. Non una parola sulla prosa di Montale, Zanzotto,
Parise, La Capria, Fortini, Garboli. Le prose di Saba, che valgono non meno dei
suoi versi, sono ignorate. In compenso a un testo come I barbari di Baricco vengono dedicate
dieci righe. Ma questo è niente. Non si dice nulla delle Operette morali e della Storia della letteratura
italiana di
De Sanctis, che con il romanzo di Manzoni sono il vertice della prosa
letteraria dell’Ottocento. In una trattazione come questa forse “ci è” la
linguistica, ma non “ci è” la letteratura, direbbe il vecchio De Sanctis. E c’è
quasi d disperarsi.
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