sabato 24 marzo 2018
La Nazionale di calcio e il Partito Democratico. Una “strana coppia” che diventa paradigmatica in questa fase della vita pubblica italiana. Unita da un elemento decisivo in comune: la non–gestione della sconfitta.
«In Occidente non esiste la cultura del perdente, solo l'esaltazione del vincitore. Ma è nella sconfitta che si manifesta la gloria dell'uomo», scriveva Leonard Cohen. Verissimo. In Italia non siamo abituati a considerare la sconfitta come la potenziale premessa (spesso necessaria) di una nuova fase di successi: dalla politica all'impresa allo sport, tendiamo a considerare il “fallimento” una macchia indelebile e il “fallito” colui il quale non è più degno del nostro interesse. Questo gap culturale ha due conseguenze dirette sul piano dei comportamenti: la tendenza diffusa a minimizzare la sconfitta, o addirittura a negarla, e la mancanza di coraggio (almeno pubblico) nell'analizzare in profondità le cause di quanto accaduto, sottoponendosi a una spietata autocritica.
Quando la nostra Nazionale non è riuscita a centrare l'obiettivo minimo della qualificazione ai Mondiali di calcio in Russia, dopo 60 anni dall'ultima eliminazione, la reazione si è consumata esclusivamente sul terreno dello scontro di potere per la gestione della Figc. È mancata un'analisi oggettiva dei punti di debolezza dell'intera filiera del nostro movimento calcistico – dai vivai al rapporto tra squadre di club e Nazionali – ed è stata testardamente evitata qualsiasi forma di autocritica da parte di chi non aveva saputo investire sul talento italiano né proteggerlo nella globalizzazione del calcio. A oggi, non a caso, non è stata ancora presentata ai 60 milioni di tifosi italiani una nuova strategia di gestione. E non è stato individuato neanche un nuovo allenatore, che abbia l'autorevolezza e le capacità manageriali per rifondare da zero la più amata delle nostre Nazionali.
Ancora peggiore, se possibile, è stata la reazione del Partito Democratico alla clamorosa sconfitta del 4 marzo. Non servono sofisticate analisi dei flussi elettorali per comprendere quale abisso abbia diviso l'intera “classe lavoratrice”, e in particolare le fasce più deboli della popolazione, dal partito che dovrebbe rappresentarle. Il Pd è letteralmente scomparso dalle periferie geografiche, economiche e sociali: eppure quasi nessuno dei suoi dirigenti ha sentito il bisogno – né all'interno degli organi di vertice del partito, né sui giornali – di fare una robusta e onesta autocritica. Non tanto per chiedere scusa ai militanti smarriti, ma soprattutto per riconoscere la mappa dei bisogni dimenticati e per ricostruire su di essa una credibilità politica.
La Nazionale di calcio e il Pd sono oggi gli emblemi di una dannazione tipicamente italica, quella della sconfitta “inutile”. Ma rappresentano anche, paradossalmente, i cantieri più interessanti. A patto che il fare i conti con la realtà diventi lo strumento fondamentale per ricostruire una connessione sentimentale con tutti quelli che si sono sentiti traditi e abbandonati.
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