Non si finirebbe mai di ascoltare la loro voce. Di Gemma, la moglie; di Mario, il figlio giornalista; per la prima volta anche la voce di Luigi, che quando il padre muore non è ancora nato e ne erediterà il nome. A 50 anni esatti dall'omicidio del commissario Calabresi i quotidiani tornano a dare la parola a loro, che mai dissero né oggi pronunciano alcuna parola banale, ma sempre parole pacate e mosse dall'amore, anche se parole non identiche. Sulla “Repubblica” (17/5) è Luigi ad affidare le sue prime parole a Piero Colaprico: «Io mio padre non l'ho neanche conosciuto e non riesco a perdonare». Sottolinea il ruolo importante, decisivo della madre, intervistata sulla “Stampa” (17/5) da Cesare Martinetti, con domanda finale e fatale su Pietrostefani. Madre Gemma e figlio Mario (che firma una pagina struggente sul “Corriere”, 17/5), è un coro: non ha senso la galera per un uomo di 78 anni, malato; ma avrebbe molto senso una parola di verità. Una verità aspra, ruvida, dolorosa è nell'incalzante sequenza di citazioni d'epoca, feroci e gonfie di odio, tratte da “Lotta Continua” e messe in fila da Marco Travaglio sul “Fatto” (17/5). Conclusione: «Gli anni di piombo sono finiti. Il malvezzo di linciare persone perbene che non possono difendersi, invece, continua». Sul “Giornale” (17/5) Luca Fazzo intervista l'ex prefetto Achille Serra. Domanda: «Che tipo era Luigi Calabresi?». Risposta: «Un poliziotto senza pistola. Non è un modo di dire, girava davvero disarmato». Sul “Corriere” (17/5), Mario Calabresi racconta come si sia riconosciuto in una foto, scovata nell'archivio Publifoto: è lui quel bambino sulle spalle di papà alla sfilata degli alpini, a pochi giorni dall'omicidio. Ieri il fotografo Claudio Beneggi scrive al “Corriere” (18/5) e conferma: avevo 18 anni, quella foto l'ho scattata io. E dal fronte della memoria è tutto.
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