Mettere una mano in tasca, prendere qualche spicciolo e metterlo nella mano tesa in richiesta d'aiuto può essere un gesto semplice, perfino automatico. Una sorta di riflesso condizionato. Qualche volta quella mano tesa non ci piace, e ritraiamo la nostra, perché magari pensiamo che sia un professionista dell'accattonaggio, uno che si approfitta o tenta di approfittarsi. Mia madre, quando usciva di casa, era sempre piena di monetine che dava a chiunque le tendesse una mano. E se qualcuno le diceva che avrebbe dovuto essere più accorta, rispondeva immancabilmente: «Bisogna fare sempre la carità, non sono io a dover essere più attenta, casomai è un problema della loro coscienza». Teologia spicciola di una semplice catechista, se volete, ma decisamente vera e profonda. Perché come disse nel 1979 Giovanni Paolo II, «possiamo non esser d'accordo con chi fa l'elemosina, per il modo in cui la fa. Possiamo anche non consentire con chi tende la mano chiedendo l'elemosina, in quanto non si sforza di guadagnarsi la vita da sé. Possiamo non approvare la società, il sistema sociale, in cui ci sia necessità di elemosina. Tuttavia il fatto stesso di prestare aiuto a chi ne ha bisogno, il fatto di condividere con gli altri i propri beni deve suscitare rispetto... Quando il Signore Gesù parla di elemosina, quando chiede di praticarla, lo fa sempre nel senso di portare aiuto a chi ne ha bisogno, di condividere i propri beni con i bisognosi, cioè nel senso semplice ed essenziale, che non ci permette di dubitare del valore dell'atto denominato con il termine "elemosina", anzi ci sollecita ad approvarlo: come atto buono, come espressione di amore verso il prossimo e come atto salvifico».
Non è un caso se il magistero dei papi è stato sempre ricco di pagine sull'argomento. E forse è perfino inutile ricordare quante volte Francesco abbia parlato, e come parli quasi quotidianamente, dell'importanza della carità per e nella nostra vita, e l'esempio che egli stesso dà ogni giorno, soccorrendo, sostenendo, provvedendo a chi è nel bisogno. Dovremo ricordarcelo quando, domenica 27 giugno, saremo chiamati alla colletta per la carità del Papa. Saremo cioè chiamati ad aiutare e sostenere le opere di carità del Pontefice, essere uno dei milioni di rivoli attraverso cui il Papa è messo in grado di aiutare.
Che sono veramente milioni. Anni fa, credo trentacinque, ebbi modo di parlare con il responsabile dell'ufficio dell'Obolo di San Pietro, che raccoglie le offerte che arrivano da tutte le parti del mondo, per capire e raccontare come funzionava il sistema. Mi spiegò appunto che era quasi impossibile dire come come e quando si formava l'Obolo, in quanto arrivavano anche decine di migliaia di offerte di singoli, spesso assegni o addirittura contanti dentro buste indirizzate direttamente "Al Papa, Vaticano". Mi fece leggere alcune di quelle lettere, e una mi colpì particolarmente. Era di un'ottantenne signora americana, che diceva che aveva sempre sognato di venire a Roma per vedere il Papa, e che per il suo compleanno i figli le avevano regalato i soldi per il viaggio. Quei soldi li aveva invece spediti al Papa: «Sono troppo vecchia per affrontare il viaggio, e sono sicura che lei saprà utilizzare molto meglio questi soldi per i poveri». Domenica prossima pensiamoci, e non teniamo la mano in tasca. Siamo noi che possiamo aiutare il Papa.
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