Dice un vecchio adagio, uno di quelli che usavano ripetere le nostre nonne: «Chi non fa, non sbaglia». Non c'è – credo – bisogno di spiegare che vuol dire, anche se il suo uso può essere, per così dire, polivalente. Nel senso che con quella frase si può sia giustificare un errore che si è commesso sia stigmatizzare l'atteggiamento di chi – per malintesa prudenza, per paura, per vigliaccheria, per non rischiare nulla, insomma – sceglie l'inazione, l'immobilismo. Non fare per non sbagliare. Semplice e pulito. Quante ne conosciamo di questo tipo di persone? Pulite, azzimate, mai un errore, ovviamente, ma sempre pronte magari a giudicare, riprendere gli altri, quelli che invece fanno, o almeno ci provano, o anche a consigliare loro come devono farlo, sempre col manuale pronto in mano. E quante volte noi stessi siamo così, questo tipo di persone?
A essere totalmente onesti nella risposta, il rischio di farsi davvero molto male è altissimo. Eppure proprio questa del chi non fa non sbaglia sembra essere (nelle sue diverse declinazioni: non decido, non prendo posizione, non mi espongo...) la moderna regola della convivenza. Che, se è inaccettabile da una prospettiva sociale, dal punto di vista del credente è molto semplicemente la negazione stessa del cristianesimo. Papa Francesco l'ha detto chiaro e tondo qualche giorno fa, in un'intervista rilasciata a Tv2000, in cui ha toccato, tra gli altri argomenti, anche questo. E parlando dall'esigenza di testimoniare il Vangelo con la vita – perché, come ha ripetuto tante volte citando Benedetto XVI, «esso si diffonde per attrazione, non per proselitismo» – ha affermato che quando vede cristiani «troppo puliti che hanno tutte le verità, l'ortodossia, la dottrina vera, e sono incapaci di sporcarsi le mani per aiutare qualcuno a sollevarsi, non sanno sporcarsi le mani; quando vedo questi cristiani io dico: "Ma voi, non siete cristiani; siete teisti con acqua benedetta cristiana, ma ancora non siete arrivati al cristianesimo"». Perché se Dio «si è sporcato le mani ed è disceso al nostro infero, ai nostri inferni, è disceso... noi dobbiamo seguire le sue tracce. "No, io non riesco, fino a qui …", va bene; ma non sei arrivato a essere cristiano, sei un cristiano a metà, un cristiano superficiale, neppure un cristiano: un uomo che crede in Dio, che ha delle idee chiare sulla redenzione, che crede in satana, sa che satana esiste, ma si ferma alla porta degli inferi, fa dei calcoli».
A fare ciò è la "mondanità". E per questo, ha proseguito Francesco, «quando padre De Lubac, alla fine del suo libro Méditations sur l'Eglise ("Meditazioni sulla Chiesa") dice che la mondanità spirituale è il peggiore male che possa accadere alla Chiesa, la corruzione più grande, ha ragione, perché tocca questo. La mondanità spirituale ferma la discesa di Dio agli inferi: a metà. È disceso lì, in Galilea ha predicato, poi se n'è andato. No...». Un concetto già chiaramente espresso nell'esortazione apostolica Evangelii gaudium, là dove si afferma che «la mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale», la cui attualità è forse inutile sottolineare. Una mondanità che finisce con il cancellare l'identità cristiana, omologandoci a un mondo che non sa e non vuole rischiare nulla. Bisogna, al contrario, essere pronti a darsi, a tirarsi su le maniche, a dimenticarsi egoismi e paure, e senza preoccuparsi dei successi, perché il cristianesimo, come Francesco ha detto in un altro passaggio della stessa intervista, «non è una storia di successi, ma di persecuzioni». E lo è anche oggi.
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