Abbiamo (quasi) sempre detto e scritto che la misura perfetta per la letteratura italiana è il racconto. Romanzi, dopo i Promessi sposi e Le confessioni di un ottuagenario (Ippolito Nievo, 1867), quasi non ne abbiamo. Il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, ma chi lo legge? Ha inciso di più nell'immaginario collettivo il teleromanzo che Sandro Biolchi ne trasse nel 1963, con Ornella Vanoni che faceva la parte della Sniza, la sgualdrina, rendendola involontariamente elegantissima. C'è Il cavallo rosso di Eugenio Corti, e ben poco altro. Il resto sono racconti, al più racconti lunghi, alcuni molto belli, ma il romanzo è altrove.
Ben vengano, dunque, i racconti, anche se le raccolte di racconti editorialmente non vanno a ruba, chissà perché. Segnaliamo allora sette racconti di Bruno Nacci, raccolti sotto il titolo La vita pezzi (Solfanelli, pagine 168, euro 13). Racconti come romanzi a pezzi, cioè come la vita.
Sono storie dolenti, vite di rimpianti, fasci di luce che improvvisamente illuminano angolini coscienziali che si era preferito dimenticare. La coppia anziana di Quello che non c'è più non smette di rimuginare per quel lontano tradimento di lui e si odiano ancora. Sulle strade entra nella mente di un giovane pusher (grande abilità dello scrittore) che non si rassegna ad essere stato escluso dal giro, ed è chiaro che finirà malissimo. In Siboney una professoressa divorziata, con un amante disponibile, disperata per la scomparsa della gatta che era l'unico essere vivente a tenerle compagnia, resta abbacinata dalla sorprendente maturità virile di un allievo, intelligentissimo, sempre calmo, protettivo, un vero uomo, e chissà come andrà a finire dopo averlo invitato a una conferenza e poi avergli dato appuntamento in un grande albergo. Disperatissima la storia del Lamborghini (che è un trattore) con un vecchio malato di Alzheimer che non ha amato nessuno, neppure la moglie, le figlie, ciascuna con un segreto rancore verso di lui che non hanno mai saputo ammettere o confessare. Del resto, come Mara, protagonista del Signore dei sogni, e solo verso la fine si viene a sapere che ha un marito, che l'aveva sempre trascurata, in carcere e non se la sente di aiutarlo. E come dimenticare il generale in pensione di Fuori ordinanza, perduto nei ricordi e nell'incomprensione di moglie, figlio e nuora? C'è anche, nel racconto d'apertura intitolato Clandestine (sfugge il motivo per cui Nacci scriva, pur rispettosamente, “dio” in minuscolo) che ospita generosamente una polacca con figlia, senza permesso di soggiorno e con un segreto inquietante, con l'ostilità dei parrocchiani, gente gretta, pettegola, egoista.
La scrittura di Bruno Nacci è avvolgente, ti impone il suo ritmo, non puoi saltare nemmeno una parola. Nacci è studioso di Giorgio Vigolo, e lo si avverte nella sua prosa, classicheggiante e metafisica insieme, si potrebbe dire “rondista”, cardarelliana. E il tratto metafisico (nel senso della pittura metafisica di De Chirico) sta anche nell'inserimento strutturale dei sogni, descritti in corsivo, più veri della realtà di cui sono interpreti.
Più da vicino, certe pagine ricordano i quadri di Hopper, esplicitamente citato nell'incipit di Siboney: «Aveva lasciato le imposte aperte e adesso la luce del mattino entrava bianca e neutra come nei quadri di Hopper». E ancora Siboney rivela la data in cui il racconto è stato scritto: è il titolo di una canzone di Connie Francis, 1960.
A pagina 114, un professore illustrava agli alunni, con il telescopio, la costellazione di Orione, spiegando «che la stella più luminosa era Aldebaran». Sbagliato. Orione ha due stelle di prima grandezza che sono Betelgeuse e Rigel; Aldebaran è «l'occhio rosso» della costellazione del Toro. La stella più luminosa dell'emisfero settentrionale è Sirio, nella costellazione del Cane, accanto a Orione. Pignoleria oblige.
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