Era agosto anche allora, le Olimpiadi erano quelle di Londra 2012: Vanessa Ferrari, piccola e coraggiosa ginnasta azzurra, concluse in lacrime la sua gara sfortunata. Realizzò lo stesso punteggio di una russa, Aliya Mustafina, ma per una questione di regolamento e di decimi in meno, finì quarta anziché terza. Giù dal podio per un niente insomma, e il mondo che ti crolla addosso. Ma lo sport è fatto così. E le Olimpiadi sono pure peggio. Quattro anni per pensare, programmare una gara sola, costruire quel che resta del giorno, di una carriera, di una vita. Ricordo che in quella occasione ho conosciuto Enrico Casella, che di Vanessa Ferrari era ed è ancora l'allenatore, il secondo padre, il punto di riferimento. Dopo averle asciugato le lacrime, mi raccontò cosa diceva alle sue atlete nel mese che precede una gara importante: «Spiego loro che devono ripetere l'esercizio anche dieci volte al giorno. Ogni esercizio riuscito significa una pallina bianca, ogni esercizio sbagliato una nera. Tutte queste palline si mettono in un vaso immaginario: nel giorno della gara, è come se si pescasse a caso una pallina da quel vaso. Più esercizi giusti si saranno fatti, più alta è la probabilità che sia giusto anche quello della gara...». Quel giorno pensai che sarebbe un bel modo di preparare qualunque cosa. Un discorso, un lavoro, una sfida. E tutta la vita.
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