Acavallo tra il 1960 e il 1970 un po' tutti siamo stati strutturalisti, intendendo per «tutti» coloro che si occupano di critica letteraria. Io stesso ho pubblicato nel settembre 1968 un saggio sull'argomento per la rivista "Ulisse" diretta da Maria Luisa Astaldi, gran dama della letteratura e del collezionismo insieme al marito Sante. Ne avevo accennato in questa rubrica il 16 aprile 2008 (come passa il tempo), a proposito di Todorov, strutturalista pentito. L'occasione per riparlarne è il piccolo libro di Roland Barthes Sul racconto edito da Marietti 1820 (pp. 86, euro 8) che raccoglie una conversazione del 1965 con Paolo Fabbri, che Fabbri stesso aveva dimenticato ed era rimasta inedita. Paolo Fabbri, eminente semiologo scomparso ottantenne il 2 giugno dello scorso anno, all'epoca era assistente volontario presso la cattedra di Sociologia nell'Università di Firenze, ma già in grado di tener testa, con ammirazione, a un mostro sacro quale Roland Barthes. Ricordo Fabbri, amico di Eco e Bettetini, per la chioma cespugliosa che lo caratterizzava e per l'intelligenza che sprizzava anche nelle più semplici conversazioni. Barthes suggerisce il metodo (che, parole sue, «è anche una scommessa») di applicare al «racconto» ciò che la linguistica applica alla «frase». Operazione immane, data l'immensità di racconti che ci sono nel mondo, ma il punto è di trovare delle costanti «strutturali» che consentano di mettere ordine nel caos. Un po' come aveva fatto Vladimir Propp
che, nella sua Morfologia della fiaba, aveva identificato nel racconto 31 funzioni variamente combinate intorno a otto categorie di personaggi: l'eroe, il falso eroe, l'antagonista, il mandante, l'aiutante, la principessa o il premio, il padre di lei, il donatore. E già si comprende che questa ardua classificazione conduce all'impoverimento perché, sintetizzando ulteriormente e banalizzando, si può concludere che la struttura di tutti i racconti si riduce al gioco di due che si amano e vogliono sposarsi (Renzo e Lucia), ostacolati da un avversario (don Rodrigo) con la complicità di un terzo (don Abbondio), per arrivare a un lieto fine che, in un altro romanzo può essere tragedia. Così facendo, però, abbiamo perso per strada I promessi sposi e qualunque altro romanzo. È come se, analizzando la musica, si «scoprisse» che ogni composizione è fatta di sette note, ma con questo non spieghiamo niente della musica, la banalizziamo soltanto: perché il punto è scoprire e gustare come le sette note si combinano fra loro, creando armonie e/o dissonanze. Barthes, con la sua intelligenza e brillantezza, suggerisce tre coppie che strutturano il racconto: desiderio/ricerca; donatore/destinatario; adiuvanti/opponenti. Ma non va più in là dell'ipotesi.
Nella postfazione, il semiologo Gianfranco Marrone rivendica allo strutturalismo il merito dei «colpi di piccone» inferti «all'umanesimo». A mio avviso, però, se paragoniamo l'umanesimo a un palazzo, i colpi di piccone dello strutturalismo lo ridurrebbero ai pilastri in cemento armato che lo sorreggono, ma allora come si fa ad abitarci?
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