Nei giorni scorsi una ragazza ha partorito in carcere, così, sulla scia del fatto di cronaca, è riemerso il dibattito sull'annoso problema dei bambini in carcere e sulle tutele che dovrebbero essere applicate alle donne detenute in gravidanza. Faccio presente che le ragazze incinte erano due, da poco arrestate, segnalate dalla garante dei detenuti alle autorità competenti. E c'era anche la disponibilità di Roma Capitale ad accoglierle in una struttura del Comune. Invece, come detto, una delle due ragazze ha partorito in cella: fortunatamente tutto è andato bene. Fra poco tempo partorirà anche la seconda ragazza, e ne era già entrata una terza (al terzo mese di gravidanza).
Ma qualcosa evidentemente si è mosso, perché due giorni fa è uscita l'ultima mamma con i suoi bambini, per andare ai domiciliari. Attualmente, quindi, il Nido di Rebibbia è vuoto. Indubbiamente, però, si tratta di ulteriori conferme del fatto che il sistema carcerario, così com'è, non funziona. Un bambino in carcere è un fatto intollerabile, innanzi tutto perché il carcere è un'istituzione punitiva. È facilmente intuibile come il carcere sia l'ambiente più insano dal punto di vista dell'igiene mentale e dello sviluppo fisico di un bambino. La reclusione condiziona infatti il linguaggio e la capacità di movimento dei bambini che si trovano a vivere in cella assieme alle loro mamme. "Apri", "fuori", "aria" sono tra le prime parole che i piccoli imparano a pronunciare in carcere. Le quattro mura della cella finiscono per diventare il loro mondo, un mondo dove lo spazio è limitato, e non mi riferisco soltanto allo spazio fisico. Lì non c'è posto per le piccole scoperte che aiutano i bambini a esplorare il mondo nei primi anni di vita, non ci sono tutti gli affetti familiari, non ci sono passeggiate, non ci sono lunghe corse all'aria aperta. In carcere, il bambino subisce inenarrabili costrizioni poiché vive e cresce secondo i tempi e i ritmi, i suoni e gli odori della prigione. L'ambiente è innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli, seppure attutito da un diverso regime di detenzione e da locali per quanto possibile più colorati.
Del resto, il sistema carcerario crea enormi problemi anche a chi vi lavora, dai direttori fino agli agenti penitenziari, dagli psicologi ed educatori ai medici e agli infermieri. Vi posso assicurare che in certi giorni sembra di vivere in un campo d'emergenza: costretti a lavorare col poco che si ha, con l'esperienza fatta sul campo e con lo scarso personale disponibile. Tutto ciò, ovviamente, produce conseguenze sui detenuti e sul personale. I numerosi suicidi di questi anni dovrebbero essere spie d'allarme e far comprendere alle autorità competenti l'urgenza di una riforma penitenziaria completa, che rispetti la dignità delle detenute e dei detenuti e aiuti il personale carcerario a lavorare con serenità.
Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile "Nuovo Complesso"
di Rebibbia
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