Dopo Enea, Andromaca (nome di fantasia). «Un altro neonato lasciato in ospedale. La bimba partorita in un capannone» (“Corriere”, 13/4). La cronaca di Sara Bettoni e Pierpaolo Lio, dopo aver sentito Gian Vincenzo Zuccotti, primario di neonatologia all’ospedale Buzzi di Milano, precisa: «La notizia è trapelata contro la volontà dei medici, addolorati perché la donna aveva chiesto discrezione». La sensazione è che senza il clamore dato alla vicenda di Enea, non sarebbe trapelato nulla. E speriamo che le vicende di bambini come loro tornino in quella zona di rispettoso silenzio e pudore off limits per la cronaca. Di questo secondo caso scrive il “Giornale” (13/4) – titolo: «Milano, lasciato un altro bebè. In 3mila “rifiutati” ogni anno» - con la cronaca di Maria Sorbi che completa tragicamente il titolo con i dati dell’Associazione Amici dei Bambini: «Solo in 400 sopravvivono (...). Per gli altri non c’è nulla da fare. Spesso vengono trovati morti o quando ormai è troppo tardi per salvarli». Le parole sono importanti e i verbi importantissimi, specialmente qui. Sul “Corriere” (13/4) Silvia Avallone ammonisce: nel caso di Enea, «non si può e non si deve dire “abbandonato”». La mamma di Enea «lo ha affidato, che è l’opposto di abbandonare (...). Gli ha dato un nome: l’amuleto più importante che portiamo con noi nell’avventura di vivere». Correttamente, “Libero” (13/4) con Renato Farina scrive di «bimba lasciata in clinica» e commenta: «Altri appelli televisivi e generosità a secchi? Dimenticheremo presto la piccina? Probabile e persino opportuno. Sarà anche un bene per lei, e per chi l’adotterà, non diventare una celebrità». Fino alla rivelazione dello scrittore Paolo Di Paolo sulla “Stampa” (13/4), titolo e sommario: «Io, Enea e noi figli adottivi. Appartengo alla porzione di umanità che ha avuto la fortuna di nascere due volte. La prima un evento biologico, la seconda l’occasione offerta da chi mi ha voluto». Poi i figli nascono e finiscono nella vetrina narcisista e tritatutto dei social. Sulla “Repubblica” (14/4) Elena Dusi riassume un articolo del “Journal of Pediatrics”. Titolo del suo servizio: «Trecento foto dei figli già online a un anno. I pediatri: “Fermatevi”». In Europa, il 73% dei bambini finisce su Internet prima dei due anni di vita. Fermiamoci, sul serio.
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