Nel suo recente intervento al Festival delle Regioni, la premier ha posto su due binari paralleli l’attuazione dell’autonomia differenziata (che comunque, assicura, andrà avanti «senza stop») e la stagione delle riforme con cui intende «cambiare l’architettura istituzionale di questa nazione», riferendosi poi esplicitamente alla forma di governo. La distinzione è formalmente ineccepibile perché in questo secondo caso si tratta di modificare il testo della Costituzione, mentre nel primo la Carta è stata già modificata nel 2001 e ora il percorso prevede solo leggi ordinarie per quanto con procedura rafforzata. Eppure, per la piega che ha preso, l’autonomia differenziata può modificare l’architettura istituzionale della Repubblica in misura non inferiore al premierato elettivo. Altro che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, come recita l’articolo 116 della Costituzione con una formula che farebbe pensare a un’eccezione circoscritta. Le Regioni in prima linea (ma quasi tutte si stanno muovendo) tendono a fare il pieno delle 23 materie per cui è possibile chiedere la super-autonomia. Si va dalla tutela della salute e dell’ambiente all’istruzione, dalla produzione e distribuzione dell’energia alle grandi reti di trasporto. Un trasferimento di competenze di enorme portata di cui francamente è difficile cogliere il rapporto con le specificità territoriali. Il rischio evidente è che, al di à di là dei richiami all’unità e indivisibilità della Repubblica, venga di fatto messa in crisi la coesione del Paese e siano moltiplicate le disuguaglianze tra Regioni ad alto e basso reddito. Per cercare di evitare questo rischio, quindi, il trasferimento di funzioni è stato subordinato alla determinazione e al finanziamento dei Lep, vale a dire quei “livelli essenziali delle prestazioni” che devono essere assicurati su tutto il territorio italiano. Che poi i Lep siano sufficienti a garantire l’equità sostanziale è tutto da dimostrare. Il precedente dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza vigenti in campo sanitario, è sconfortante: la tutela della salute è uno dei settori in cui le disparità tra le Regioni sono più accentuate. Ma l’idea di fondo è sensata. Il punto è che finora non si è parlato di soldi. Sabino Cassese, che presiede il Comitato a cui il governo ha affidato l’incarico di studiare e individuare i Lep, la scorsa settimana è stato ascoltato dalla Commissione affari costituzionali del Senato dove si sta esaminando il ddl Calderoli. E ha detto chiaramente che una volta indicati i Lep bisognerà indicare anche i corrispondenti fabbisogni e allora «dovranno essere fatte delle scelte politiche» perché «il problema è di sapere che tagli e che aggiunte bisogna fare agli stanziamenti». Infatti, è illusorio pensare che l’autonomia differenziata possa essere realizzata a costo zero e questa circostanza, in un quadro di risorse finanziarie estremamente limitate, è destinata a pesare come un macigno sul percorso dell’attuazione. Con inevitabili ripercussioni anche sull’accordo tra Lega e FdI per l’accoppiata autonomia-premierato. Ecco perché si è affacciata l’ipotesi di circoscrivere le materie a cui applicare i Lep e di procedere intanto solo in quelle che secondo alcune interpretazioni resterebbero svincolate (per il Comitato Cassese potrebbero essere cinque). Ma sarebbe un’ennesima, discutibile forzatura.
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