Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare nemmeno, sii assoluto silenzio e solitudine.
È notte fonda mentre scrivo queste righe. Anche la città è immersa in un "assoluto silenzio", sotto il sudario dell'oscurità gelida dell'inverno. Sto sfogliando un album di fotografie, forse troppo leziose e manierate, intitolato Tornare felici (Paoline); i testi, però, sono di un autore di qualità, Marco Guzzi, il quale ha anche costellato le pagine di citazioni. Ho scelto quella di uno scrittore che amo, Kafka. Mi sembra non solo adattarsi a questa mia notte ma anche a divenire uno spunto di riflessione per tutti. Usciamo troppo spesso di casa, talora per obbligo di lavoro ma non di rado per distrarci, pur di non restare da soli con noi stessi.
Certo, non è facile rimanere al tavolo e ascoltare ciò che il cuore sussurra e la coscienza rimprovera. Ma ancor più difficile è aspettare: sapere, cioè, che la nostra vita può avere una chiamata a una scelta diversa oppure immaginare un progetto nuovo di esistenza. Tuttavia la cosa più ardua - ma alla fine la più esaltante - è proprio l'"assoluto silenzio". È lì che Dio si rivela, è lì che il mistero si schiude, è lì che scopriamo il vero senso della preghiera, è lì che la meta della vita si delinea. Immersi tutto il giorno in una fiumana di parole, di suoni e di rumori, coinvolti in incontri e in scontri, non sappiamo più decifrare il linguaggio del silenzio che è lo stesso linguaggio della fede. Non per nulla Giobbe, giunto alla fine delle sue grida, sa una cosa sola: «Io, o Signore, ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42, 5). Ed è "assoluto silenzio".
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