I cittadini europei posseggono oggi circa 80 milioni di armi da fuoco, tra fucili, pistole e altri strumenti potenzialmente mortali, ma consentiti dalla legge per caccia, tiro sportivo e difesa personale. Secondo stime prudenziali, circolano all'interno dei confini Ue alcuni altri milioni di rivoltelle, carabine e simili non registrati, oltre ad “arnesi” da sparo molto più pericolosi (come mitragliette e fucili mitragliatori), tutti detenuti illegalmente: facile immaginare che lo siano per venire usati con intenzioni criminali o di terrorismo.
Si comprende quindi perché l'Unione stia cercando di darsi regole comuni a tutti gli Stati membri, per garantire un clima di maggiore sicurezza generale, pur mantenendo, per chi ne ha il diritto e offra adeguate garanzie, la possibilità di acquisto o di uso legittimo. La ricerca di una disciplina omogenea è in atto da tempo e una prima Direttiva in materia, per controllare commercio e detenzione, risale a 30 anni fa, quando i Paesi Ue erano solo dodici.
Più di recente (2017) tutta la normativa è stata aggiornata ed ampliata, finché il 24 marzo scorso il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Unione hanno varato una codifica definitiva, inserendola fra le “leggi” comunitarie. Ma un conto è scrivere le norme e altro è vederle applicare. E come quasi sempre avviene, il problema è la solerzia e la precisione con le quali i “27” recepiscono la Direttiva nelle loro leggi nazionali. A parole il controllo delle armi da fuoco sta a cuore a tutti, ma nei fatti la sua attuazione si rivela più tortuosa di un torrente di montagna.
Qualche giorno, fa un Rapporto pubblicato della Commissione ha offerto un quadro davvero poco confortante. Per cominciare, in vista della stesura del documento, era stato inviato un questionario agli Stati membri, ma otto di essi non hanno neppure risposto. Quanto al trasferimento delle regole in casa propria, solo 10 Paesi hanno fatto tutti “i compiti” (sia pure con un po' di errori), altri 15 hanno recepito la normativa parzialmente (l'Italia è fra questi) e due hanno, per così dire, lasciato il foglio “in bianco”: si tratta nientemeno che del “fondatore” Lussemburgo e della Slovenia, presidente di turno in questo semestre. Non sorprende che da Bruxelles siano già partite svariate decine di procedure d'infrazione.
Nel frattempo, i segnali d'allarme, come dimostrano le cronache, si moltiplicano sotto forma di sequestri, sparatorie e attentati. Nel Rapporto si ricorda che l'anno scorso la Ue ha adottato anche un piano d'azione quinquennale che giudica l'attuazione della direttiva “una priorità assoluta” e che contemporaneamente l'Ufficio delle Nazioni Unite contro droga e crimine (l'Unodc di Vienna) ha pubblicato un dossier molto pesante sul traffico illecito di armi da, in e verso l'Europa.
La Commissione ha preso in esame anche altre ipotesi di intervento, legate al crescente ricorso alle stampanti 3D per fabbricare “in casa” armi in grado di sparare, al riuso di armi antiche da collezione, alle modifiche illecite di strumenti di segnalazione visivi o sonori (come le scacciacani). Inoltre, ha messo allo studio una carta europea digitale delle armi da fuoco e la possibilità di una “banca dati” comune che faciliti lo scambio d'informazioni fra le autorità nazionali. Secondo le statistiche criminali la Ue registra in media ogni anno circa 7mila vittime di spari. Non siamo ancora alle 30mila e passa degli Usa, ma vogliamo aspettare di arrivarci prima di agire?
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