A osservare certi occhi lucidi e certe pupille dilatate, il sospetto malandrino ti sovviene. Ma forse sarà un semplice raffreddore e ti vergogni della tua malizia. Poi li vedi e senti parlare a sproposito, dire colossali enormità, aggredire verbalmente l'avversario con le narici schiumanti tipo bufalo muschiato, e allora il sospetto ritorna: non è che certi nostri politici si strafanno di sostanze illecite, dalla cannabis alla cocaina? Saranno mica dopati?
Questa storia del doping in politica viene tirata fuori periodicamente. Nell'anno or ora tramontato un leader politico fiorentino, ex presidente del Consiglio (come potete constatare, per prudenza ci guardiamo bene dal fare nomi e cognomi), ospite nel salottino sciccoso di Fabio Fazio l'ha proposto con la serena determinazione di chi sa che ne guadagnerà qualche bel titolo su giornali e tg, uscendone illeso: facciamo l'antidoping ai politici. Bravo copione. Narrano le antiche cronache che nel 2005 la proposta fu avanzata a Milano da un consigliere comunale della Lega. Molti si dissero d'accordo, ben sapendo che non se ne sarebbe fatto niente. Ma soprattutto la leggenda, o forse è realtà, tramanda che nel novembre del 2009 Giovanni Serpelloni, allora a capo del Dipartimento antidroga di Palazzo Chigi, propose ai parlamentari di sottoporsi volontariamente a un controllo antidoping accurato, urine e capelli, garantendo l'anonimato e allestendo due centri sanitari appositi presso Camera e Senato.
Ma perché accanirsi in questo modo con i politici, neanche fossero nuotatrici della Germania Est, lottatori mongoli o giavellottisti della Russia putiniana? Il leggendario Serpelloni, in quell'epoca remota, diceva cose sensate: un manager, di aziende private o della cosa pubblica, se è drogato, non può assumere decisioni equilibrate perché i processi di valutazione vengono alterati. È vero che tanto tempo fa certe società finanziarie tolleravano, o perfino incoraggiavano l'uso di cocaina per reggere lo stress abnorme di chi deve decidere in pochi secondi la sorte di migliaia, milioni di dollari. Poi, dopo il capitombolo del 2008, cambiarono idea, essendosi convinti, beati loro (e beati noi che affidiamo loro i nostri sudati risparmi), che alla base del crac e di troppe decisioni avventate ci fosse proprio la coca, e non nel senso di cola. Quell'altra coca.
In effetti, il principio di lealtà ed equità suggerirebbe proprio di procedere a controlli meticolosi, se non nel Parlamento e delle giunte attuali, almeno in quelle in via di formazione. Prevenzione! La competizione elettorale, lo dice la parola stessa, è una "competizione". Si gareggia, ci si affronta in pubblica tenzone, si gira siccome trottola per raduni, comizi e salotti tv in cui la forma fisica, la prontezza di riflessi e la lingua sciolta sono decisive. È giusto dunque competere ad armi pari. Un candidato pieno di cocaina e un altro che va a pane e salame non hanno le stesse chance, come probabilmente capitò – e qui siamo in epoche preistoriche – ai poveri pedatori ungheresi alla finale del Mondiale svizzero del 1954, travolti dai calciatori di una Germania che pochi giorni dopo la vittoria finirono disciolti in infermerie e cliniche, e alcuni non riuscirono mai a smaltire la sbornia.
In campagna elettorale è giusto presentarsi con il certificato medico immacolato. L'unica polverina bianca ammessa sia il borotalco dopo il bagnetto. Si concorra ad armi pari, senza aiutini. Uno spin doctor è ammesso, un ghostwriter pure, un personal trainer anche, un pusher no. Dopo Porta a porta, analisi per ogni partecipante. Tutti a fare la pipì. Anche Bruno Vespa, giusto per dare il buon esempio.
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