Caro Avvenire, mi chiedo perché nessuno, sia nel nostro Paese sia a livello internazionale, protesti contro l'aggressione della Russia verso l'Ucraina e, in modo fortemente critico, quando Putin bombarda o lancia missili sulle case o palazzi ove vivono persone che desiderano solo stare in pace. Anche questo caso si può chiamare genocidio. Sta sotto gli occhi di tutti la completa distruzione di paesi, città e ambiente che il Cremlino sta perseguendo.
Federico B.Padova
Gentile Federico, sono molti i temi contenuti nella sua lettera, che dà voce all’angoscia di moltissimi, immagino, davanti alla guerra che da 25 mesi insanguina l’Ucraina. Cominciamo subito con il chiarire che non si può chiamare genocidio l’orrore che le armate di Putin hanno scatenato dal 24 febbraio 2022. Il genocidio ha caratteristiche ben precise. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 sulla prevenzione e la repressione di tale crimine, esso è configurato da atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. E tali atti non si sono ancora manifestati nel conflitto in corso. Sappiamo che per quanto riguarda l’invasione israeliana di Gaza è aperto un procedimento presso la Corte internazionale di giustizia, e la decisione non sarà né facile né unanimemente accettata. Quando, tuttavia, vediamo colpito un centro commerciale, come è accaduto sabato scorso a Kharkiv, con tante vittime civili, dovremmo certamente avere ancora un sussulto di indignazione, che invece sembra essersi diluita nell’assuefazione alla guerra. Perché, si chiede lei giustamente, pochi (dire “nessuno” è falso) continuano a protestare, mentre per la sorte dei palestinesi c’è (giustamente) una grande mobilitazione? Le motivazioni sono molteplici e complesse. Quello che possiamo però dire qui è che non possiamo smettere di lavorare per una pace giusta nel Paese invaso dalle truppe di Mosca. Il Papa non si stanca di invocarla, e questo serve anche a tenere viva l’attenzione nel mondo intero sulle sofferenze di un popolo indomito, come ha sottolineato la premio Nobel ucraina Oleksandra Matviichuk in un colloquio che ho pubblicato recentemente su “Avvenire”. Che cosa possiamo fare, dunque, per sostenere gli aggrediti, sia come singoli sia come Paesi europei? Da subito c’è stato un intervento umanitario e un aiuto militare. Quanto possiamo insistere su quest’ultimo? La proposta del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg di concedere l’uso della armi per attacchi sul suolo russo ha provocato, comprensibilmente, reazioni contrastanti e diviso le forze politiche. Evitare che l’esercito di Putin sfondi le linee difensive è una precondizione per future trattative. La prossima conferenza in Svizzera potrebbe essere un’occasione per lasciare - e non è mai troppo tardi
- più spazio alla diplomazia che ai missili, anche se non possiamo illuderci che i due belligeranti siano disposti a fare concessioni (pur asimmettriche, perché l’Ucraina rimane drammaticamente il Paese invaso) in questa fase del conflitto.
Resta l’obbligo di non fare calare l’oblio su una ferita lacerante ai nostri confini. Oltre al fallimento morale, avremmo anche il rischio di sottovalutare la minaccia che una vittoria di Mosca può rappresentare per altri Paesi del Continente. Elementi da considerare attentamente anche quando andremo a votare i prossimi 8 e 9 giugno per il nuovo Parlamento europeo, sapendo che una pace giusta e duratura è l’obiettivo da perseguire.© riproduzione riservata