Nessuno dovrebbe mai prendersi troppo sul serio. Il rischio è di finire per declinare la vita in prima persona – io, io, io... –, e questo nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, si può arrivare a vedere il mondo come se tutto congiurasse contro di te, cosa che con tutta evidenza può essere pericolosa per sé e per gli altri. In un'epoca contrassegnata dall'autoreferenzialità, recuperare questo senso del limite potrebbe, anzi decisamente è, molto importante. Perché non prendersi troppo sul serio, essere capaci di ridere anche su di sé, di sorridere almeno un po' anche nelle situazioni più difficili è fondamentale per un modo di vivere molto più semplice. Molto meno ripiegati su se stessi, molto più aperti agli altri.
Un principio che vale sempre, e sicuramente anche nella vita di fede. Perché «che la gioia sia nota caratteristica e indispensabile della vita cristiana, dello stato di grazia, voi ben sapete. Un cristiano può mancare di tutto; ma se è il cristiano unito a Dio nella fede e nella carità, non può mancare di gioia». Lo disse Paolo VI nel 1965, rovesciando in qualche modo la tradizionale narrazione del cristianesimo, austera se non mesta, e da allora tutti i suoi successori hanno sempre battuto e ribattuto su questo tasto, insistentemente. Compreso come ovvio Francesco, per il quale, andando anche oltre la semplice nozione di gioia, quest'ultima «va molto unita al senso dell'umorismo. Un cristiano che non ne ha, gli manca qualcosa». Ecco perché «da quarant'anni recito la preghiera di san Tommaso Moro», per avere «il senso dell'umorismo. Vanno sempre insieme la gioia cristiana e il senso dell'umorismo e, per me, il senso dell'umorismo è l'atteggiamento umano più vicino alla grazia di Dio».
Bergoglio l'ha detto in un'intervista contenuta in un libro, “Dio è gioia” nel quale Chiara Amirante ripercorre la visita dello scorso settembre alla comunità Nuovi Orizzonti. La preghiera in questione è abbastanza famosa. Dice: «Dammi, Signore, una buona digestione, anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buonumore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un'anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell'umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po' di gioia e possa comunicarla agli altri».
Un inno alla vera gioia cristiana, quello di Tommaso Moro. Che è una cosa molto diversa dalla felicità, perché se questa è un attimo, la gioia cristiana scende dentro l'anima, e dà serenità. Ecco perché, allora, come Francesco dice «la gioia è un dono, non è un sentimento chiassoso, non vuol dire fare rumore, anche se a volte si esprime così». E per arrivare a essa è necessario «imparare lo spogliamento di sé, lo svuotamento, imparare a svuotarsi». Ed è un qualcosa, racconta Francesco, alla quale ci si può anche esercitare: «Una volta avevamo un professore che ci ha chiesto se avevamo l'abitudine di guardarci allo specchio e fissarci in silenzio per un minuto. Nessuno, eravamo gesuiti, aveva quell'abitudine. “Fatelo!” ci disse. E questo, nel caso mio, quando qualche volta l'ho fatto, mi porta in mezzo minuto a ridere di me stesso». Perché ridere di noi stessi «è molto importante!». Impariamolo tutti. È così che si arriva alla gioia.
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