A primavera reclamavo la mia Ferrari a pedali, lassù nel ripostiglio. Avevo quattro anni e mia sorella, di dieci, mi accompagnava sotto casa. Facevamo tre giri d'isolato. Vai piano, mi raccomandava lei, ma io premevo sui pedali e mi lanciavo nella corsa. Mia sorella mi inseguiva, mi bloccava. Riprendevo a pedalare. Lei sempre paziente, alle mie spalle. Avevo capelli lunghissimi. Lucetta mi pettinava, davanti alla toilette della mamma. La rivedo, pallida, nello specchio. Se tirava troppo col pettine, strillavo: una viziata principessa con la sua damigella. Lei, nello specchio, gentile, mansueta.
Mi hai lasciata sola, recriminavo quando morì, a quattordici anni. Scomparsa la sua ombra buona, e io più grande, duramente, di colpo. Infantilmente però la cercavo: dammi un segno, chiedevo, un piccolo segno che ci sei ancora. Che il gatto salti sul tavolo, che dalla strada un clacson suoni. Mai nulla. Nessun muro impenetrabile, quanto quello che lei aveva traversato. Come sarebbe diverso se tu fossi qui, mi dicevo, aspra e triste com'ero diventata. Eppure adesso, se penso alla famiglia, ai figli che ho avuto, se mi guardo alle spalle mi pare di vederla ancora: non mi ha mai lasciato. Come quando correvo sulla mia Ferrari a pedali e lei mi riacciuffava, sorridendo, e mi intimava: più adagio.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: